A Venezia non era mai accaduto. Tre carcerati in ritiro spirituale nell’isola di San Francesco del Deserto. Alcuni di loro hanno respirato a pieni polmoni. Non godevano di un’intera giornata di sole, ossigeno e libertà da anni. Oltre le sbarre del carcere maschile di Santa Maria Maggiore scorgono solo «catrame e cemento, non c’è nemmeno un filo d’erba. E forse un’occasione del genere è la prima anche in Italia» dice il loro cappellano, don Antonio Biancotto, che per questa uscita straordinaria insieme ad altri tre volontari si è assunto la piena responsabilità di quei tre reclusi. «Nel caso di fughe o eventi spiacevoli paga di persona l’accompagnatore» ammette il sacerdote. Ma così non è andata, e don Antonio lo sapeva bene. Anzi, quella di giovedì 30 marzo al monastero di San Francesco si è trasformata in una tappa decisiva del cammino di fede e redenzione dei tre carcerati italiani, tra i 40 e i 50 anni d’età, in regime di semi libertà. Ma anche di chi li ha accompagnati. «Mi sono reso conto che fare i soldi in modo facile delude. Spero che questa sia la mia ultima detenzione» rompe gli indugi Francesco, dopo la mezzora di silenzio che i partecipanti hanno osservato tra i giardini del monastero, a seguito della preghiera guidata da don Paolo Ferrazzo.
«Il ritiro mi ha liberato dal peccato, dall’angoscia di aver ucciso per strada un uomo e di non essermi fermato per paura» confessa Marcello, innescando l’effetto domino al resto dei partecipanti: «Io mi sono compensato delle paghe non corrisposte con il furto della macchina del padrone, perché ero senza soldi – si fa coraggio Saverio – spero di uscire presto dal carcere e di reinserirmi. Di ritornare da uomo libero in questo posto affascinante». Anche i volontari vengono spiritualmente travolti dalle ammissioni comuni. Una confessa: «Prima ho guardato i fiori: offrono se stessi senza sapere di farlo. Io invece ci metto la mia vanità. Vorrei essere come loro». Un altro accompagnatore sostiene che la sua prigione sia «l’angoscia del lavoro, il domani, l’insicurezza». E don Antonio Biancotto ammette: «In alcune prove sento che il Signore mi chiede di restare, allora chiedo a Lui di non liberarmi, di affiancarmi alla Sua Croce nel modo migliore. Di aiutarmi ad accettare». Parlare del motivo della reclusione è tutt’altro che consueto per un condannato. «È segno che stanno prendendo le distanze dal reato» sottolinea il cappellano che ha seguito la loro intera detenzione. «Significa che l’hanno metabolizzato, approfondito. E questo è frutto del cammino di fede fatto insieme. Se ci fossero ancora dentro non racconterebbero i motivi che li hanno fatti rinchiudere. Questa libertà interiore proviene da un cammino di fede». Coccolati dai francescani minori, che a sorpresa li hanno invitati a pranzo e poi guidati in tutti gli angoli nascosti dell’isola, i tre uomini hanno goduto per un’intera giornata di ciò che non viene offerto nemmeno ai turisti: «È stato bello sederci accanto ai frati – afferma fiero il sacerdote – e dopo pranzo abbiamo visto polli, galline e granchi in acqua», lontani per una sola volta dai guai con la giustizia, dalle sbarre, dalle regole ferree dell’istituto. «Proprio loro che, nell’istituto di detenzione maschile, non godono di un minimo filo d’erba. Il contatto con la natura, il sole, l’aria, l’acqua, gli animali, le piante e i bonsai…. non è cosa da poco». La messa raccolta nella chiesa romanica ha permesso a tutti di recitare un Padre Nostro tenendosi per mano. «Dopo aver salutato i padri abbiamo fatto tappa a Burano e l’abbiamo visitata, prima di fare ritorno, puntuali allo scadere del permesso, all’istituto di pena».
Giulia Busetto