La sua sveglia suona alle 3.15 del mattino. Poi impasta, inforna, sforna, decora. Tutto il giorno. Si ferma solo alle 13, giusto il tempo di tirare il fiato, mettere qualcosa sotto ai denti e poi un altro dritto fino alle 7 di sera. Pensare che da piccola voleva fare la la veterinaria. Poi la biologa o la zoologa. E in quella pasticceria del nonno ci infilava il naso solo per mangiare. «Ero sempre davanti al bancone. Quando entravo in laboratorio mi facevano al massimo rompere le uova. Io speravo sempre che dal forno uscisse qualcosa di bruciacchiato, così me lo sarei mangiato io. E se c’era da assaggiare ero sempre in prima linea», ride la 26enne Marina Renato.
Annusava i baicoli appena sfornati, le fugasse ancora calde, il lievito misto aromi soffiati dal forno, il burro spalmato nei macchinoni che giravano. Dal “Nono Colussi”, in calle lunga San Barnaba, queste fragranze si respirano ancora.
E a profumarla ancora così questa pasticceria, dopo sessant’anni, adesso ci pensa lei, che nel momento in cui nonno Franco ha rischiato di dover abbassare la serranda si è rimboccata le maniche, gli ha messo una mano sulla spalla e poi tutte e due in pasta, nel vero senso del termine. «È vero – confida la giovane pasticcera – se in quel momento non mi fossi spesa, questa attività avrebbe chiuso».
Finito il liceo classico Marina si prende un anno sabbatico per riuscire a racimolare qualche soldo in grado di sostenere i futuri studi universitari. Ma proprio in quel momento l’attività di famiglia comincia a vacillare. «Nonna sta poco bene e nonno si trova da solo in negozio: produce, lava, sforna, vende e cerca di stare dietro alla nonna». La ragazza non ci pensa due volte e decide di affiancarlo.
Sei mesi, forse un anno. Quel che basta per rimettere il locale in sesto. E quello che sembra un sacrificio d’amore diventa presto una passione. Folgorante, inaspettata, che tocca le corde della sua infanzia. Tanto quanto quel lievito madre del nonno, che riceve in dote più di sessant’anni fa dal suo ultimo datore di lavoro, nel 1956. «Noi diciamo a tutti i clienti che questo lievito ha più di 60 anni perché loro vogliono una data precisa. Ma per quanto ne sappiamo potrebbe provenire anche dagli antichi egizi – ride lei – perché il vecchio datore di lavoro di mio nonno chissà da chi lo aveva, a sua volta, ricevuto. Mio nonno ha cominciato a fare il pasticcere a 11 anni. Il negozio lo ha comprato quando si è messo in proprio a 21 anni. Lavorava da Bonifacio. E in questo suo ultimo impiego sotto padrone ha ricevuto in dono, dal vecchio maestro, un piccolo pezzetto di lievito madre. Ma non si sa quanti anni abbia».
Adesso quel lievito lo usa anche Marina. Lavorando gomito a gomito con nonno Franco. «Mi ha trasmesso tutto quello che sa. Tutt’oggi continua a istruirmi in modo casalingo. Anche lui ha studiato tutto sul campo». E quando d’estate va in ferie, Marina non si ferma. Apre i libri di teoria e fa corsi integrativi per perfezionare la sua tecnica.
Anche se insegnamento più grande di quello del “Nono Colussi” sarà difficile trovarlo, vale nelle ricette per dolci e nella vita: «Bisogna saper dosare il giusto, sempre. Questo è l’insegnamento più grande del nonno. Non cercare scorciatoie, dando il tempo alle cose di venire bene, con calma. Aspettare il loro tempo ed evitare le esagerazioni. Se si mette troppo zucchero o troppo burro il risultato non c’è. Cercare di essere piccoli scienziati nel dosare il giusto, sia nella vita che nei dolci. E poi goderseli il più possibile, come bisogna fare con la vita. Giusto lavorare ma anche essere capaci di dire basta. Di non volere troppo. Ci vuole la giusta dose anche qui, perché bisogna essere felici».
E a insegnarlo è un uomo che alla fatica non volta mai le spalle. Neanche nel 1966 quando si rimbocca le maniche per risolvere i danni dell’acqua alta. O nel 1978, sotto Natale, quando la bottega dei Colussi prende fuoco. «L’incendio ha bruciato tutto e lui si è fatto forza e ha ricostruito tutto», racconta con orgoglio la nipote. «Cucinava con gli stivali alti, le macchie sospese e l’acqua che arrivava all’inguine. Non sapeva dove mettere i panettoni. Ma aveva talmente tanti debiti che non poteva permettersi di perdere una giornata di lavoro. Ma mi dice sempre che quando a un artigiano serve una mano guarda in fondo alle braccia e ne trova due».
Giulia Busetto