Tanti, tra i meno giovani, se lo ricordano ancora. Con l’inconfondibile sombrero in testa vendeva souvenir sul ponte di Rialto. «Pochi però sanno che durante la Seconda Guerra mondiale, da prigioniero, salvò la vita a tanti prigionieri come lui», spiega Gianluigi Bertola, muranese (fratello di don Umberto) appassionato di fotografie di oggi e di ieri. Oltre ai suoi scatti – sempre molto suggestivi ed espressivi – Bertola raccoglie e divulga foto della Venezia dei tempi passati e spesso pubblica sulla sua pagina Facebook dei brevi articoli a corredo. E’ qui, grazie al passaparola e poi ad alcune ricerche fatte in prima persona, che Bertola è riuscito a ricostruire la storia del “messicano”.
«Si chiamava Osvaldo Borgarelli e abitava in calle Santa Caterina, tra i Gesuiti e Calle Racchetta», racconta a GV. Le prime foto pubblicate on line da Bertola, avute dall’amico collezionista Gianni Ercole, erano accompagnate da una breve storia, ancora lacunosa: «Non ricordavo il nome, ma volevo rendergli omaggio perché mi era stata raccontata la sua vicenda di prigionia». Il post sui social riceve alcuni commenti utili a mettere al loro posto alcuni pezzi del puzzle: «L’informazione più preziosa me l’ha data il diacono Franco Sormani che mi ha scritto il nome del “messicano”. Si chiamava appunto Osvaldo Borgarelli e, facendo un po’ di ricerche, sono riuscito a mettermi in contatto con il nipote Furio e sua figlia, la pronipote Emma». Da loro arriva il resto della storia: «A casa lo chiamavano Nino, era nato intorno al 1915-1916, non ricordavano la data esatta. Ricordavano bene, invece, che era stato internato in un campo di concentramento in Russia».
Prigioniero in Russia. La prigionia sotto i russi fu molto dura, ma lui non si perse d’animo, anzi: «Andava a rubare il cibo nelle baracche dei sottoufficiali e lo portava ai compagni di prigionia. Tanti italiani si salvarono grazie a lui. Tornò a casa qualche tempo dopo la fine della guerra, non subito, cosa che accadeva spesso per i reduci e soprattutto per i prigionieri liberati che poi dovevano intraprendere un lungo viaggio, non privo di peripezie, per ritornare. Gli fu dato un impiego alle Ferrovie dello Stato, ma lo lasciò molto presto: era uno spirito libero», spiega ancora Bertola riportando le notizie avute dai familiari. «Fu così – prosegue – che prese una licenza da ambulante per vendere giocattoli e souvenir. Girava nella zona di Rialto ma anche alla Stazione, con quel sombrero in testa e i baffi alla Salvador Dalì. Baffi, peraltro, che erano una caratteristica di famiglia perché – così gli è stato riferito dalla pronipote – anche il nonno e il padre li portavano così. Vendeva accendini, yo-yo (che appendeva ai lobi delle orecchie), cagnolini con la molla, paperelle per l’acqua, era diventato un personaggio conosciuto perché pittoresco. Tra gli oggetti che credo molti veneziani ricordino, c’erano le biglie in vetro. Noi bambini dell’epoca avevamo quelle in terracotta e le sue erano un’autentica novità».
Andò avanti a vendere fino agli anni Novanta, poi si ritirò, ma non si conosce la data della sua morte. «Quel che è certo – continua Bertola – è che la sua storia, al di là degli aspetti folcloristici, non la conosceva praticamente nessuno. Ha salvato delle vite e mi sembrava giusto farla conoscere».
Serena Spinazzi Lucchesi