«Amo questa città, costruita da uomini che hanno avuto un’intelligenza come pochi al mondo. E noi dovremmo avere per lei lo stesso rispetto che si ha quando entriamo in un museo, per lasciarla ai posteri meglio di come l’abbiamo ricevuta. Ma ciò che le sta accadendo è l’esatto opposto».
Ermes Gaetani parla così di Venezia – dove ha il «privilegio» di lavorare – con gli occhi lucidi e una punta d’amarezza nel cuore. Classe 1961, nato a San Stino di Livenza e residente a Spinea, è ormai uno dei pochi macellai rimasti nella città lagunare. Una quindicina sparsi tra i vari sestieri – dice – quando un tempo, che sembra davvero descrivere tutta un’altra storia, la stessa cifra la si registrava solo a Cannaregio. Un altro mondo, insomma, che non può non essere ricordato senza un pizzico di nostalgia. Parliamo degli anni ‘80 e nello specifico del Rio Terà San Leonardo o meglio, dell’area compresa tra l’ex Cinema Italia (dove ora c’è un supermercato) e la cosiddetta “Baia del re”, dove di macellerie ne sono rimaste soltanto 3. Attività che via via hanno chiuso i battenti intorno all’‘85, senza riaprire più. Una saracinesca abbassata dietro l’altra, segno di un cambiamento inesorabile le cui conseguenze sono oggi sotto gli occhi di tutti.
Ermes Gaetani ripercorre il proprio percorso lavorativo dagli esordi, quand’era ragazzo. Dopo due anni di superiori ha abbandonato gli studi, intraprendendo quest’attività un po’ per caso. Il primo posto di lavoro l’ha ottenuto a 16 anni, in una macelleria di Mestre, a cui ne è seguito uno al Lido (periodo importante per la sua formazione) e a Venezia, dove gli Zardinoni avevano più botteghe. E proprio nell’‘81 ha cominciato a lavorare come dipendente in quella che cinque anni dopo è diventata a tutti gli effetti la sua macelleria. Situata al civico Cannaregio 1331, ai piedi del ponte delle Guglie, lì si vendeva carne già nel dopo guerra. «Sono un lavoratore autonomo dall’‘86 – spiega – con due dipendenti. Lavoriamo tra le 40 e le 45 ore a settimana, compreso il sabato, aprendo il negozio al pubblico dalle 7 alle 13.30».
Un mestiere che Ermes definisce duro e che per funzionare l’ha portato a tanto impegno e a qualche rinuncia. Come una vacanza o più tempo libero da trascorrere con la moglie e le due figlie. Ma ne è convinto: rifarebbe ogni cosa. «La chiave di tutto? Perseveranza e voglia di fare», dice, soffermandosi su quegli aspetti che hanno messo in crisi il “suo” mondo e, più in generale, quello della piccola impresa. «La grande distribuzione, la globalizzazione, ha ucciso i “piccoli”. Penso a chi ha concentrato grosse ricchezze nelle mani di poche persone, distruggendo così una “diversità” che qui in città era una ricchezza. Una volta c’erano negozi di ogni tipo mentre ora ve ne sono di tutti uguali: un errore gravissimo».
Senza considerare le problematiche legate ai nuovi adempimenti burocratici che comportano un impegno sempre più gravoso e un ricambio generazionale fondamentale per la sopravvivenza di un’attività come la sua. Certo, l’“era vegana” e le campagne degli ultimi anni contro un consumo eccessivo di carne hanno portato ad una diminuzione delle vendite. Ma la vita da macellaio Ermes la consiglierebbe, a garanzia di una soddisfazione sia professionale che economica.
«L’aspetto più bello che ricorderò anche quando sarò in pensione? Quello umano, ossia il rapporto con il cliente (il turista rappresenta solo un 5%), seguito nel tempo nelle sue vicende personali. Una parola e un sorriso scambiati con chi entra è qualcosa che un supermercato non può offrirti. Venezia, in fondo, sta morendo proprio perché sta venendo a mancare questo, il sentimento. E se i politici non capiranno cosa sta accadendo davvero, la situazione non cambierà mai».
Marta Gasparon