Cinque giovani volontari passano Capodanno nel carcere femminile della Giudecca: la libertà esiste anche dietro le sbarre
La scelta di vivere un’esperienza all’interno della Casa di reclusione femminile della Giudecca in un periodo dell’anno come questo, non è casuale. Perché è proprio durante le festività natalizie, seguite dal Capodanno e dall’Epifania, che le detenute tendono ad assaporare una nostalgia legata a quegli affetti lontani, che non è possibile stringere a sé.
È in questo contesto che s’inserisce la proposta coordinata da suor Anna Follador, della congregazione di Maria Bambina, che da anni presta servizio in carcere e che a partire dagli ultimi giorni del 2022 ha aperto le porte della propria sede veneziana a cinque giovani pronti a vivere un’esperienza a contatto con la realtà del carcere.
Ragazze e ragazzi fra i 20 e i 30 anni, originari della Lombardia; studenti universitari in città (ma non solo) che hanno voluto vivere un’esperienza che nessuno di loro, a parte un caso soltanto, aveva mai condiviso prima. L’estate scorsa, in occasione di Ferragosto, le giornate trascorse da una ventina di giovani a stretto contatto con le religiose e con le recluse, per poco più di una settimana, hanno lasciato il segno.
Tanto che l’iniziativa è stata organizzata nuovamente in vista del 31 dicembre scorso, per 4-5 giorni, e sarà riproposta anche per l’Epifania, come da tradizione destinata a chiudere le festività.
Tanti gli spunti e le riflessioni espressi dalle ragazze e dai ragazzi che hanno vissuto alcuni giorni di volontariato a stretto contatto con il carcere femminile.
Gabriele, 23 anni, originario di Rescaldina (un piccolo paese dell’Alto Milanese) e il cui sogno nel cassetto è quello di diventare architetto: «Addentrarmi in un mondo così lontano dalla mia quotidianità, mi ha posto davanti a tante domande che mi resteranno dentro. Il tempo più bello che ho avuto la fortuna e la grazia di vivere in questi giorni? È fatto di quei momenti in cui dimenticavo dove fossi, rendendomi conto dell’opportunità inestimabile, per quanto delicata, di mettermi in ascolto delle donne detenute – con le loro cicatrici e gioie – che prendono un volto e un nome».
«A preoccuparmi – continua Gabriele – è il fatto che le politiche sociali generino delle dinamiche tali per cui tutte loro non siano aiutate a riprendere in mano la propria vita, dopo il periodo di reclusione: sentirsi marchiate dal peso dell’errore a vita, non essere accompagnate con percorsi di riabilitazione sociale e la tentazione di scegliere una “vita più comoda” a dispetto di una riappropriazione della propria dignità, sono solo tre delle pene non dette, invisibili, che ho potuto scorgere, ma che vanno trattate con cura».
Dell’esperienza trascorsa a Venezia «mi porto a casa – conclude il giovane – lo stupore nel momento in cui mi sono reso conto che il senso di libertà si può trovare ovunque e, inaspettatamente, soprattutto in un carcere: le donne detenute fanno domande, si interrogano, ti invitano a ballare, a cantare, a sorridere. Imparano a scrivere, a leggere, a dialogare, a prendersi cura delle compagne di stanza, a provare emozioni. Per questo c’è bisogno di raccontare quel che succede là dentro: possiamo imparare un po’ di libertà qui fuori! Grazie per la Luce di questi giorni».
Elisabetta, 26 anni, professoressa di Lettere in una scuola media ed educatrice in Azione Cattolica: «Le giornate vissute da volontaria sono state un dono. Trascorrere l’ultimo dell’anno con suor Anna e le sue consorelle, insieme ad altri giovani volontari, ha ricaricato il cuore e ha dato respiro all’anima. Incontrare le donne detenute mi ha permesso di scorgere un Dio che non si dimentica di nessuna Sua creatura e che compie miracoli anche nelle storie più buie e dolorose. Torno a casa con un cuore rinnovato e uno sguardo diverso: entrambi più ampi, più capaci di fare spazio all’altro per come è, più desiderosi di cercare la bellezza al di là degli errori o del male commesso; più capaci di sperare e di credere che veramente “nulla è impossibile a Dio”».
Di quest’esperienza condotta a Venezia «porterò con me il guardare negli occhi le detenute, ascoltare le loro storie, raccogliere le loro lacrime e i loro sorrisi, stringerle in un abbraccio e sentire che siamo fatti della stessa carne, fratelli e sorelle tutti. Se penso a questo 2023 appena iniziato, desidero fare più spazio alle relazioni autentiche. Stare nella quotidianità col cuore vigile e attento ai bisogni degli ultimi che ho accanto. Il mio mondo è la scuola: desidero aiutare i ragazzi a sviluppare un pensiero critico. Vorrei che fra i banchi di scuola avessero un’occasione per imparare ed essere profondamente umani, così da non commettere scelte sbagliate».
Ma cosa fare, anche sulla scorta di quanto si è visto e conosciuto nelle carceri veneziane, affinché la situazione dei detenuti, in Italia, migliori? «Aprire un dialogo autentico tra la realtà del carcere e la società. Il carcere mi è parso un mondo a sé stante: con le sue regole, che non riesce a interagire adeguatamente col mondo fuori. In questi giorni mi sono chiesta spesso: che futuro hanno queste donne nel momento in cui, scontata la loro pena, verranno liberate? Un’altra cosa che mi preoccupa è che molte di loro sono vittime, prima che colpevoli, perché fidatesi delle persone sbagliate. Mi pare tanto il lavoro ancora da fare in termini di “prevenzione”. L’incontro con le detenute mi ha aiutata ad aumentare la mia fede a partire dalla loro. Alcune mi hanno testimoniato un incontro autentico con Gesù, vissuto davvero come compagno che non ti lascia mai la mano, anche nella notte più buia».
Marta Gasparon
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