L’ultimo fatto, il più grave della serie, ha mandato un ragazzo all’ospedale con una frattura alla colonna vertebrale. Sabato scorso a Rialto sei ragazzi ventenni sono stati aggrediti da quella che tutti chiamano la “baby gang”. Un gruppo di ragazzini, poco più che adolescenti, che imperversano da mesi in città, colpendo alla cieca in modo violento. Le forze dell’ordine li hanno identificati, si sa chi sono. E si sa che non provengono da famiglie particolarmente disagiate. Anzi. Eppure un disagio, per comportarsi in questo modo, ci deve essere. «Cercano di farsi notare e non trovano altro modo per farlo», commenta Nicola Chiarot, insegnante, educatore e coordinatore di gruppi giovanili nelle collaborazioni parrocchiali di Cannaregio. «Evidentemente – aggiunge – non trovano un modo per esprimersi né in famiglia, né a scuola, né in altri ambiti. E’ per loro un modo, sbagliatissimo ovviamente, per dire “io esisto”. Altri giovani trovano una strada diversa, magari nello sport, nelle attività di parrocchia o di volontariato. Loro no. Non trovano attrattiva in queste attività, che non sono abbastanza appetibili per loro. Probabilmente le famiglie sono in qualche modo assenti, non hanno dialogo e forse non hanno il polso della realtà che stanno vivendo i loro figli». Spesso in questi casi le famiglie tendono anche a minimizzare.
Punire non basta. Ma come intervenire a questo punto? «La sola punizione non basta. Certo – sottolinea Chiarot – ci troviamo di fronte a fatti gravi per i quali le forze dell’ordine e la magistratura prenderanno provvedimenti. Ma sanzionare non è sufficiente. Ci vuole un grande lavoro formativo, educativo». Si parla, in questi casi, di alleanza tra i vari soggetti della “comunità educante”. E non è un concetto astratto. «La scuola può fare molto, perché intercetta tutti. Oggi ci sono sportelli dedicati a queste problematiche all’interno degli istituti scolastici, ci sono psicologi, ma anche gli insegnanti sono chiamati a fare la loro parte. Sicuramente le famiglie vanno coinvolte molto di più. Va individuato un percorso insieme, perché questi ragazzi si sentano protagonisti di un percorso positivo».
Volontariato nella sofferenza. Quell’io esisto di cui si diceva all’inizio può essere tradotto in pratica con modalità differenti: «La scuola, la parrocchia, l’associazionismo devono proporsi in modo che i giovani si sentano al centro, si sentano responsabili. Altrimenti non sono attrattivi. Occorre offrire esperienze concrete, anche forti». Ad esempio, suggerisce Chiarot, dei percorsi di volontariato – obbligatori nel caso dei ragazzini della banda – in situazioni che mostrino realtà differenti dalla loro, anche difficili: «Far capire a questi ragazzi che esistono mondi diversi, dove si soffre. Ovviamente il tutto commisurato all’età». La soluzione non è comunque semplice da trovare, servono strategie complesse. «Lo Stato deve investire risorse nella scuola, negli educatori, nei servizi sociali. E poi la scuola deve fare leva per arrivare alle famiglie per coinvolgerle. Poi gli altri soggetti educanti devono essere propositivi, coinvolgendo i ragazzi perché si sentano protagonisti». Protagonisti di qualcosa che sia positivo e non distruttivo.
Serena Spinazzi Lucchesi