«Ho combattuto la buona battaglia ho conservato la Fede». Cita san Paolo, Giovanni Trapattoni, per un bilancio dei suoi 80 anni appena compiuti e della sua carriera. Una frase che, da sola, fa già capire una caratteristica che ha sempre contraddistinto la vita del “Trap”: la Fede.
L’allenatore più vincente del nostro calcio domenica 17 ha spento 80 anni candeline, festeggiando con la famiglia: la moglie Paola Miceli, sempre al suo fianco, i figli Alessandra e Alberto, i nipoti, tra i quali Riccardo, la sua “voce” sui social e che lo affianca nelle pubbliche relazioni. Tutto il mondo del calcio si è inchinato al maestro: auguri sono piovuti da tutto il mondo e da decine di suoi “allievi”, da Michel Platini a Lothar Matthaus, da Roberto Mancini a Ernesto Pellegrini, per non parlare dei profili ufficiali di tutte le squadre in cui ha allenato. Lui ha risposto via social, inviando un grande abbraccio “cumulativo” per non correre il rischio di dimenticare qualcuno.
«La fede – racconta a Gente Veneta – l’ho sempre respirata in famiglia. E, voltandomi indietro, devo dire che anche da giovane, quando in alcuni momenti si tende ad essere più distratti, debbo dire che il Signore mi ha sempre tenuto per mano, è venuto a cercarmi e quando serviva a riprendermi. Vado a messa tutte le domeniche e ringrazio Dio ogni giorno per la salute e le tante fortune che ho avuto».
Come trascorre la sua vita ora senza panchina?
Il calcio lo guardo in tv. Mi godo la famiglia, faccio il nonno a tempo pieno, come tanti altri nonni. E’ una bella stagione della vita, non ho rimpianti, e penso di poter dare ancora il mio contributo.
In che modo?
Nei limiti del possibile, perché le richieste sono tantissime, cerco di intervenire alle iniziative benefiche o di solidarietà. La parrocchia e l’oratorio sono un luogo dove mi sento a casa.
Da sei anni, dopo l’esperienza con la Nazionale Irlandese, ha detto stop alla vita in panchina. Perché?
Con l’Irlanda si era concluso un ciclo. Mi erano arrivate anche alcune altre proposte da Nazionali, ma in Paesi troppo lontani. Mia moglie Paola non era d’accordo e scherzosamente mi ha avvertito: se parti cambio le chiavi di casa. E allora ho detto stop. Giusto così: nella vita bisogna riconoscere i segni del tempo. E essere grati per ciò che si ha avuto. Mi considero una persona molto fortunata.
Ha smesso anche i panni del commentatore televisivo?
Sì, sono un uomo di campo, non un opinionista. Spesso poteva capitare di venire fraintesi, o di fare domande che, involontariamente, mettessero in difficoltà i colleghi giovani. Non mi andava di recitare questa parte per restare nel giro.
Cinquantasei anni trascorsi in panchina, dieci scudetti vinti, il primo allenatore ad emigrare e vincere all’estero. Quale la soddisfazione maggiore?
Ogni vittoria ha un suo significato particolare, ma più che una singola vittoria mi emoziona tutto lo sviluppo della mia carriera.
E quale la delusione più cocente?
L’eliminazione immeritata dell’Italia ai Mondiali del 2002.
Da giovane ha attraversato momenti critici?
Eravamo poveri, mio padre morì prematuramente e improvvisamente per un infarto. Anche io avevo paura di fare la stessa fine. Riuscii a superare questo blocco psicologico ascoltando la musica classica.
C’è qualcosa che vorrebbe realizzare ora?
Mi piacerebbe trascorrere un po’ di tempo nelle scuole calcio a insegnare calcio ai bambini. Direi che, al di là delle vittorie o sconfitte, che molto spesso dipendono anche da una buona dose di fortuna, l’importante è riuscire a trasmettere dei valori.
Come vede la tecnologia nel calcio?
E’ un aspetto positivo, lo specchio del mondo che avanza. Ci fosse stata anche nel 2009 la mia Irlanda si sarebbe qualificata al posto della Francia.
Tanti ancora di questi compleanni. Auguri Trap, un mito del calcio. E non solo.
Lorenzo Mayer