«La Reyer può centrare il bis scudetto. La società granata è una sorta di mosca bianca nel panorama del basket italiano: siete fortunati ad avere un proprietario così appassionato e innamorato della pallacanestro come Brugnaro, con importanti possibilità economiche, ma anche un presidente general manager come Federico Casarin che sta gestire benissimo la squadra ed è un profondo conoscitore di basket». Le parole del coach Valerio Bianchini, il “vate” della pallacanestro, 74 anni, primo allenatore italiano a vincere tre scudetti con tre squadre diverse (Cantù, Roma e Pesaro), oltre a una Coppa delle Coppe, due Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale sono un’investitura in piena regola per il team guidato in panchina da Walter De Raffaele, che lo scorso anno ha conquistato uno storico scudetto. E secondo Bianchini le condizioni per il bis ci sono tutte.
La Reyer non l’ha mai allenata in carriera, e, oggi, incredibile ma vero, il rapporto di Valerio Bianchini con Venezia è alimentato non dalla palla a spicchi ma dal calcio: il figlio Tommaso è il direttore marketing del Venezia Calcio. Il coach però giura: «Io il calcio non lo guardo mai, mi annoia troppo. Il mio primo impatto con Venezia? E’ stato indimenticabile. Me lo ricordo come fosse ieri: alla Misericordia si tirava a canestro tra gli affreschi del Sansovino. E quel gigante di Spencer Haywood si elevava come Cristo nella Cappella Sistina. Fu un impatto terribilmente magnifico. Di una città unica al mondo». L’occasione del ritorno a Venezia per il decano dei nostri allenatori è stata la serata organizzata dal Panathlon Club di Venezia, presieduto da Luca Ginetto, che, tra ricordi, retroscena e aneddoti ha ripercorso gli ultimi cinquant’anni della pallacanestro italiana, per la presentazione dell’ultimo libro scritto da Valerio Bianchini con il giornalista torinese Paolo Viberti, storica firma di “Tuttosport”: “Bianchini. Le mie bombe. Da Bill Bradley alle squadre smart-phone: tutto quello che nessuno ha osato dire sugli ultimi cinquant’anni del basket italiano”, edito da Bradipolibri. «Un libro nato grazie ai ricordi di Valerio – ha sottolineato Viberti – che è un atto d’amore per il basket. Ho chiamato Valerio, l’ho invitato a Torino e qui l’ho portato subito al Caffè Elena, storico locale dove presero ispirazione Cesare Pavese e Emilio Salgari, subito i ricordi nel cuore e nella mente di Valerio hanno iniziato a sgorgare in abbondanza. Sono molto felice e soddisfatto per aver scritto questo libro – ha aggiunto il giornalista – anzitutto perché mi ha dato l’occasione di incontrare tanti amici di un tempo. Abbiamo fatto una ventina di presentazioni, paradossalmente le due città meno “calde” nell’accoglienza sono state le due grandi metropoli, Milano e Roma». Poi la parola, anzi la palla, passa di nuovo al “vate” dei coach.
Bianchini che rapporto ha con il basket attuale?
Il basket mi ha un po’ emarginato. E allora io mi sono dedicato a un’altra attività, dove però la pallacanestro c’entra sempre.
In cosa consiste?
Le aziende mi chiamano per fare delle lezioni di team building, utilizzando la metodologia del basket, portando i dipendenti in palestra, sviluppando lo spirito di squadra. Un’esperienza che sta avendo grande successo e mi sta dando grande soddisfazione.
Tornerebbe volentieri in panchina, se arrivasse un’offerta interessante?
Il basket di oggi è completamente cambiato rispetto ai miei tempi. E’ più atletico, ma molto meno tecnico o tattico. Sono quindi consapevole che non farebbe per me allenare una squadra, semmai, se esistesse come c’è in America, potrei ricoprire il ruolo di “senior assistant”.
C’è un pilastro nella vita di Bianchini che va oltre il campo di gioco: la fede. Lui lo dice senza tentennamenti.
Devo dire grazie alla mia famiglia e all’educazione che ho ricevuto. Sono cresciuto nell’Azione Cattolica e oltre all’aggregazione ho scoperto la bellezza di meditare sulle grandi domande della vita. La fede è essenziale anche nello sport: dà senso a tutto, anche ai sacrifici, e ti rende forte quando tutto sembra crollarti addosso. Le parabole del Vangelo poi sembrano fatte apposta per i discorsi pre-partita degli allenatori: quante volte mi è capitato di dire a un giocatore “non sprecare il tuo talento”, o di riaccogliere da “figliol prodigo” chi capiva di aver sbagliato. E quando qualcuno si montava la testa gli ricordavo il discorso della Montagna per farlo rimanere umile».
Tornando al nostro campionato, chi vede favorito?
C’è sempre Milano, che giocoforza non si può non citare tra le pretendenti al titolo. Poi, oltre alla Reyer, mi sta piacendo solo Avellino. In chiave scudetto trovo poco altro di interessante. Ma la Reyer potrà dire la sua a pieno titolo, solo dopo che sarà uscita dall’Europa. L’unica competizione europea per la quale vale la pena di sprecare energie, secondo me è l’Eurolega. L’Eurolega è il top, e quanto il nostro basket sia lontano da questo livello, lo si capisce vedendo come Milano, che da noi è il top, sia tra le ultime dell’Eurolega.
Quali difetti ha il basket di oggi?
Dal mio punto di vista si gioca malissimo. Per vincere le partite si tira quasi esclusivamente da tre punti. Mancano le bandiere, ed è un mondo praticamente in mano quasi totalmente agli agenti. L’unica squadra, che aveva una certa sua identità, era Siena perché riusciva a fare contratti abbastanza lunghi ai suoi giocatori.
Quale è la soddisfazione della sua carriera?
A livello di vittorie, sicuramente il massimo è stata la vittoria della Coppa Campioni, quando nella massima competizione europea giocavamo solo le vincitrici dei rispettivi campionati. Ma se devo scegliere la soddisfazione maggiore è stata il rapporto che si è creato con molti giocatori. Se devo sceglierne uno cito quello con Carlton Myers perché l’ho allenato in due squadre diverse e lui ha vinto in entrambe le occasioni il titolo di miglior giocatore.
Come giudica, invece, la nostra Nazionale?
Al momento è ingiudicabile, per i motivi che dicevo prima. Ci sarebbero anche talenti di classe pura, ma faticano ad emergere, perché nel nostro campionato giocano pochissimo.
Lorenzo Mayer