A volte le parole non bastano per tradurre ciò che abbiamo vissuto nella nostra esistenza. La stessa che a Cherif Karamoko, classe 2000, non ha risparmiato tragedie e dolori da cui rialzarsi sarebbe stato complicato per chiunque. Eppure il giovane, originario della Guinea francese, nelle prove che il destino gli ha posto dinanzi ha sempre intravisto un segno di speranza. «Il momento in cui pensi che tutto sia finito – dice – in realtà è quello in cui qualcosa di buono arriva. La vita mi ha insegnato che oltre la sofferenza c’è la felicità, sempre. Ma non puoi vederla se non tieni duro». Parole ripetute anche in occasione della cerimonia, tenutasi presso la chiesa degli Scalzi per la consegna del Premio internazionale della Bontà, in quanto nel suo quotidiano Cherif s’impegna a ricordare il sacrificio del fratello, Imourana Cherif Mory, facendosi portavoce dell’amore senza riserve.
«Salvati tu che hai un sogno» (titolo del libro scritto con Giulio Di Feo, ed. Mondadori) gli disse lui una volta naufragati nel Mediterraneo, poco prima di scomparire fra le onde, mettendogli addosso uno dei pochissimi giubbotti di salvataggio a bordo del gommone che avrebbe dovuto portarli in Europa, per inseguire un futuro migliore. Lontano da quelle guerre d’etnia che nel loro paese non davano tregua. Era un giorno di fine 2016 quando il mezzo – che avrebbe potuto trasportare una sessantina di persone, invece ne aveva più di 140 – ha iniziato ad imbarcare acqua, fino ad affondare. «La gente litigava per accaparrarsi un salvagente, – racconta Cherif – ma erano solo 5 o 6. C’è chi addirittura ha rovesciato la benzina in mare per aggrapparsi alle taniche vuote. Le forze mi stavano abbandonando quando mio fratello, dandomi un giubbotto di salvataggio, mi diceva di essere forte».
Il sogno di diventare calciatore. Sì, perché al grande sogno di diventare calciatore – serbato nel cuore sin da bambino – il giovane guineano non doveva rinunciare. «Sono svenuto. Mi sono risvegliato nell’ospedale della nave italiana che ci ha tratti in salvo. Sono riusciti a recuperare 26 persone, ma mio fratello non era tra quelle». I ricordi drammatici sono tanti. Alla guerra fra etnie, Cherif rispondeva con il suo amore incondizionato per il pallone, tutto ciò che gli bastava per sentirsi appagato: dopo la scuola giocava ovunque, senza scarpe e anche in mezzo ai sassi. «Il calcio mi ha salvato dai problemi», sottolinea, tornando con la mente al 2013, quando la guerra si è acuita. «Mio padre, un imam, è stato assassinato». Poi la perdita della madre, portata via dall’ebola, e il lungo viaggio – la sorella con cui viveva non comprendeva infatti la sua passione per il calcio – verso la Libia, per raggiungere il fratello fuggito poiché aveva sparato nella notte dell’aggressione in casa. Mesi di calvario, in mano ai trafficanti di uomini (il fratello ha dovuto pagare un’ingente somma per liberarlo) e in condizioni estreme, anche attraversando a piedi il deserto, che a Cherif ha bruciato i piedi. Poi l’arrivo a Tripoli, decisi a raggiungere l’Europa. E a seguito del naufragio l’approdo in Calabria (vi è rimasto sette mesi), dove le criticità nel centro d’accoglienza sono state denunciate con una camminata pacifica fino in Prefettura.
L’esordio in Serie B. Trasferito a Battaglia Terme, Cherif studia e impara la lingua. I medici gli dicono che la sua salute è compromessa ma lui non si arrende: ogni giorno corre per 34 km, finché le condizioni migliorano. Poi il provino per il Padova grazie ad Arianna, accortasi del suo talento, e l’esperienza in Serie B. «L’esordio è stato nella primavera del 2019, nell’ultima partita di campionato contro il Livorno, grazie al mister Centurioni, quando il tesseramento è stato ufficializzato. Fino a quel momento mi allenavo con la prima squadra». La scadenza del permesso di soggiorno non ha consentito il rinnovo del contratto, ma ora le carte sono in regola e la speranza è di poter tornare presto a giocare ancora. Intanto vive a Padova, in un centro d’accoglienza. «L’Italia è nel mio cuore: mi ha salvato dall’acqua e ha realizzato il mio sogno. Dopo tanta sofferenza ho visto la bontà».
Marta Gasparon