Per ridurre al massimo o evitare delitti come quelli contro le donne non serve uno specifico reato di femminicidio, che nel nostro codice penale oggi non esiste. Ma occorre piuttosto intervenire sulle cause che rendono la donna più fragile e debole, per renderla più forte.
Lo dice il consigliere Adelchi d’Ippolito, Procuratore della Repubblica Vicario di Venezia, intervenendo al convegno “Alleanza donna e uomo: diritti, limiti, risorse”, in corso di svolgimento a Venezia, alla Scuola Grande di San Rocco.
«Per il legislatore – spiega d’Ippolito – alleanza è rapporto tra entità diverse e sovrane, cioè autonome e indipendenti tra loro, con obiettivi comuni da raggiungere ma così non è stato nellanostra legislazione, nel rapporto uomo donna. Solo da pochi decenni, cioè da circa 80 anni, la donna ha cominciato ad avere pieno riconoscimento come titolare di diritti».
L’esemplificazione toglie ogni dubbio: fino al 1945 la donna non era ammessa al voto; fino al 1960 era possibile il licenziamento della donna in stato di gravidanza; fino al 1963 anche contrarre matrimonio per una donna poteva portare al licenziamento, per il pregiudizio che la donna sposata fosse meno produttiva. Nel diritto familiare solo nel 1975 la donna raggiunge la parità.
Ma il problema della pari dignità e dell’alleanza tra io generi – lo dimostrano i terribili fatti di cronaca – non è ancora risolto. Per il consigliere d’Ippolito, però, «è una scelta di straordinaria saggezza e prudenza del legislatore quella di non introdurre il reato di femminicidio. Questo per evitare una legislazione ideologica, una asimmetria contraria a quella che c’era prima del 1945».
La strada migliore, invece – sottolinea il magistrato – è proprio quella di intervenire sui tanti fronti (culturali, economici, sociali…) che mantengono vivo lo squilibrio di genere.
Una tesi alla quale porta ulteriore sostanza Marta Rodriguez, direttrice dell’Istituto di Studi Superiori sulla Donna: «Se il mondo è solo maschile o solo femminile, il mondo è più povero, perché i difetti di ciascun singolo genere si fanno più acuti…».
L’identità – aggiunge la prof.ssa Rodriguez – si sviluppa nella relazione e con la relazione, siamo strutturalmente dipendenti gli uni dagli altri…
Il termine che individua questa ricchezza, conclude Marta Rodriguez, «si chiama unidualità. È una parola che si rifà a Giovanni Paolo II: significa e ricorda che l’immagine e somiglianza con Dio è piena nella comunione delle persone».
(con la collaborazione e le foto di Alessandro Polet)