Ci sembra che inquadrare la storia “giudiziaria” di Marco Cappato attraverso “Il processo” di Kafka possa aiutare a situare le paradossali dinamiche che accompagnano entrambi. Nel processo del romanzo il protagonista Joseph K. non conosce la natura del crimine che una inaccessibile autorità gli imputa, facendo così apparire l’ineluttabilità della giustizia che funziona con logiche autoreferenziali e insondabili, contro cui non servono né la razionalità né la sagacia dei personaggi (sintesi da Wikipedia!). Sembra che in Italia in questi ultimi anni sia proprio accaduto così … ma al nuovo Kappa-to è andata bene proprio per questo. Ecco quindi una sintesi storica de “Il Processo”: dal “caso Cappato” agli esiti in materia di “assistenza al suicidio” promossi dalla Corte Costituzionale.
Morte di DJ Fabo in Svizzera
Lo svolgimento processuale del cosiddetto “caso Cappato” inizia il 27 febbraio 2017 quando muore DJ Fabo, pseudonimo di Fabiano Antoniani che, a causa di un incidente automobilistico avvenuto nel giugno 2014, è rimasto tetraplegico ma cosciente. Ad accompagnarlo in Svizzera al fine di ottenere, presso una clinica specializzata, assistenza al suicidio volontario è stato Marco Cappato, esponente del Partito Radicale da sempre impegnato per la legalizzazione dell’eutanasia. Quest’ultimo, venuto a conoscenza del desiderio di Antoniani di voler porre fine alla propria vita, decide di assecondare le volontà da lui espresse. La clinica, dopo due giorni di ricovero nei quali ha accertato la volontà suicidiaria di Antoniani, lo ha messo in condizione di azionare autonomamente il macchinario che gli avrebbe iniettato il farmaco che lo ha portato alla morte immediata.
“Il processo” a Marco Cappato
Marco Cappato non ha deciso per pietà umana di accompagnare in Svizzera il soggetto malato, cosa che pure avrebbe potuto fare senza dare pubblicità al suo gesto, ma ha dato enorme risalto alla vicenda con l’intento di portare avanti la propria battaglia politica in favore della liberalizzazione delle pratiche eutanasiche in Italia. Cappato, infatti, appena rientrato in Italia il 28 febbraio si è autodenunciato alla Procura della Repubblica di Milano per avere commesso il reato di cui all’art. 580 del Codice penale (istigazione o aiuto al suicidio). A questo punto si è avviato l’iter processuale dinanzi al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano. In quel contesto il 3 maggio la Procura di Milano ha chiesto, in maniera più che corretta date le specifiche circostanze del caso, l’archiviazione per Cappato; ma con decisione veramente insolita e per certi versi incomprensibile l’11 maggio il GIP ha rigettato la richiesta di archiviazione rinviando a giudizio Cappato.
Si è quindi aperto il giudizio in Corte d’Assise la quale, con ordinanza del 14 febbraio 2018, ha sollevato dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. in quanto contrario all’art. 32, comma 2, della Costituzione il quale prevede che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
La Corte costituzionale il 24 ottobre 2018
La Corte costituzionale ha ritenuto la questione sollevata fondata e, con ordinanza n. 207 del 24 ottobre 2018, ha assunto una posizione che, nel corso della storia repubblicana, non ha precedenti: la Consulta infatti, pur ridimensionando le motivazioni addotte dalla Corte milanese in un comunicato successivo del 16 novembre, ha rinviato la decisione sul caso Cappato all’udienza del 24 settembre 2019, al contempo indicando (ma sarebbe più appropriato dire imponendo) al Parlamento di legiferare in materia di aiuto al suicidio, ritenendo altrimenti suo dovere di esprimersi sulla legittimità costituzionale del citato art. 580 c.p.
Ciò che stupisce non è tanto il fatto che la Corte Costituzionale abbia indicato al Parlamento la necessità di legiferare su determinate questioni al fine di colmare un vuoto legislativo, cosa già avvenuta in passato, quanto piuttosto che la Corte abbia stabilito tempi, luoghi e contenuti dell’intervento legislativo per il quale ha sollecitato il Parlamento: riservandosi in difetto di esprimersi sul punto.
Quanto ai tempi non si può non rilevare come la Corte non abbia tenuto conto delle tempistiche parlamentari italiane, pure note e non certo celeri, con ciò facendo sorgere il legittimo dubbio che non vi sia mai stata, da parte della Consulta, la volontà di consentire un meditato dibattito parlamentare su di una materia tanto delicata e dando la chiara impressione di spingersi oltre i propri doveri invadendo il campo di competenza del Parlamento al quale è riservato il compito di legiferare. Al contempo si deve anche notare che la data del 24 settembre 2019 non è stata scelta in modo casuale: la Corte, infatti, si sarebbe trovata nella stessa identica composizione dell’ottobre 2018, così da evitare possibili istanze contrarie di cui nuovi componenti avrebbero potuto farsi portatori.
Segnaliamo anche che il 18 luglio 2019 il Comitato Nazionale per la Bioetica ha pubblicato il documento “Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito” che presenta le diverse “opinioni” dei membri del Comitato suddivisi in tre gruppi: contrari al suicidio assistito, contrari alla sua introduzione nella pratica medica, favorevoli. Ma neppure questo documento sortisce effetti politici significativi. Un anno passa mentre tutti i tentativi fatti per arrivare ad una discussione in Parlamento di una legge non vanno in porto.
La Corte costituzionale il 25 settembre e il 22 novembre 2019
Il 25 settembre 2019 la Corte Costituzionale, all’esito di apposita udienza ed attraverso un comunicato stampa, ha anticipato gli esiti della sentenza che è stata infine pubblicata il successivo 22 novembre 2019. La sentenza n. 242 ha quindi sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Ciò significa che Cappato non sarà condannato dal tribunale competente.
Conclusione: da “Il processo” a “La metamorfosi”
Quindi la “stessa” insondabile autorità giudiziaria che ha condannato K. (Kafka) ha sollevato dal reato Cappa-to. La cornice letteraria de “Il processo” di Kafka non vuole essere semplice retorica. Vuole aiutare a situare il dramma umano di quei malati che soffrono e che magari, pur essendo nelle condizioni richieste dalla suprema autorità giudiziaria per accedere al suicidio medicalmente assistito, non lo chiederanno. Facilmente i nuovi ben pensanti che si ritengono animati da grande umanità perché favorevoli alla “buona morte” (eutanasia) li metteranno “sotto processo” per la loro disumanità, perché non tolgono il disturbo essendo diventati per gli altri un peso che suscita ribrezzo. Ma, oh!, scusate, mi sto sbagliando, questa è già la trama di un altro romanzo di Kafka, “La metamorfosi”.
Ermanno Barucco