S
ono circa 20 i migranti a rotazione che da un anno a questa parte prestano servizi di pubblica utilità su base volontaria a Mira, Dolo e Cona. Si occupano di piccole manutenzioni stradali e del verde, come togliere le erbacce manualmente dalle aiuole, raccogliere le foglie lungo la staccionata delle scuole, spandere con il rastrello la ghiaia sulle buche per le strade comunali, e dell’accompagnamento di bambini sugli scuolabus e di anziani.
«Questi lavori vengono svolti in virtù dei protocolli firmati da Città solare con i comuni di Mira, Dolo, Cona» spiega Maurizio Trabuio, referente della cooperativa sociale che ha in gestione alcune strutture ricettive dedicate all’accoglienza di profughi richiedenti asilo, nel canale Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) e nel quadro dell’emergenza prefettizia. L’associazione le ha battezzate “Case a colori”, due nel comune di Dolo, che danno accoglienza a un totale di 20 richiedenti asilo, e quattro nel territorio della provincia di Padova, dedicate allo Sprar, che di posti ne offrono 50. «Si tratta di un’iniziativa che offre manutenzione a costo zero per il Comune, perché i volontari non ricevono alcun salario: è basata sull’adesione volontaria dei migranti, auspicata, ma non coercitiva» chiarisce Trabuio.
Tuttavia il referente di Città solare muove delle critiche alle forme con cui questo lavoro viene prestato: «Siamo tutti d’accordo: è più che giusto che chi riceve del bene dalla collettività e dall’ente pubblico debba in qualche modo restituirlo. Penso però che sarebbe più corretto obbligarli a svolgere queste attività, a patto che lo facciano anche allo scopo di apprendere un mestiere: che siano insomma formati a fare lavori realmente utili e che quanto fatto venga loro riconosciuto, anche economicamente. Ritengo che sia una grande ipocrisia immaginare di poter definire lavori quelle mansioni svolte da persone “volontariamente” indotte a prestare la loro opera “gratuita” in contesti organizzati e professionali. Delle due l’una: o queste attività sono considerate lavoro, e perciò ne devono seguire le regole, la formazione, la retribuzione, la definizione di obiettivi, l’allocazione di risorse e di strumenti adeguati allo scopo, la possibilità di premiare il merito e sanzionare il demerito, oppure, se non le seguono, non possono essere considerate un lavoro».
E continua: «Di conseguenza, trattandosi di un lavoro svolto su base volontaria, non possiamo certo lamentarci se qualche volta non li vediamo presenti nell’orario prestabilito, non possiamo certo imputare loro la lunga pausa che decidessero di fare tra un’aiuola e l’altra, così come non potremmo pretendere di subire in silenzio le risatine di scherno o le offese dirette a sfondo razziale che qualcuno rivolge nei loro confronti. Sono volontari, non si può pretendere nulla».
«Il rifugiato gambiano o ghanese o nigeriano o afgano, ben disposto e motivato inizialmente, quando viene indirizzato a restituire alla comunità locale quanto ricevuto, immaginando in questo modo di guadagnarsi lo spazio di accoglienza e di integrazione, si ritrova in poche settimane a riflettere sul senso della sua esistenza che lo porta a svolgere attività poco qualificate e qualificanti. Nell’attesa che la burocrazia italiana continui il suo lento e inesorabile corso per dirgli se abbia o meno titolo alla protezione internazionale, non può che adagiarsi nella lunga attesa e nell’inutile far niente. Non sarebbe dunque meglio dichiarare che queste persone hanno l’obbligo di fornire un certo numero di ore settimanali di “vero lavoro”, come tale formato, organizzato e retribuito? E grazie a questa retribuzione contribuire alle spese del proprio mantenimento mentre sono in accoglienza? E attraverso questa contribuzione perciò accrescere il prodotto interno lordo, e quindi accrescere la collettività di un valore aggiunto che è tanto più importante di qualsiasi finta pubblica utilità?»
Valentina Pinton