Come può un ragazzo di soli 18 anni affrontare maltrattamenti, digiuni forzati, attacchi militari, traversate nel deserto, il continuo scappare da un paese ad un altro, il tutto per 18 mesi?
John Ugwueke ora abita a Dolo, presso la residenza Casa a Colori, frequenta il catechismo, studia per ottenere un certificato di lingua italiana, lavora nella ristorazione e la notte di Pasqua riceverà il battesimo nel Duomo di Gambarare di Mira. 25 anni, è nato a Nsukka, in Nigeria, dove ha vissuto con la mamma e il papà.
«Raccontare la mia storia non è facile, fa male, tante volte vorrei solo dimenticare», spiega commosso John, che ora si considera una persona felice, che spera di trovare un lavoro dignitosamente pagato che gli permetta di costruirsi una famiglia qui in Italia.
Eppure fa fatica a trattenere le lacrime quando parla di come, una notte di marzo del 2013, la sua casa andò a fuoco e lui, dopo esser stato picchiato a sangue, riuscì a fuggire. Ma da cosa? «Con la mia famiglia ci eravamo trasferiti a Riyom, dove, però, c’erano continui scontri armati sia tra musulmani e cristiani, sia tra le etnie dei Birom e degli Hausa, che si contendevano la proprietà della terra. Il leader dei Birom assiduamente cercava di reclutare persone per la sua forza armata, con lo scopo di controllare la terra di proprietà della sua etnia: tentarono di reclutare anche me».
Il padre di John si oppose, ma, a seguito di un attacco degli Hausa, il leader dei Birom si recò nella casa di John per costringerlo ad aiutarlo nella difesa della città: dinanzi ad un ulteriore rifiuto, John venne picchiato e, scambiato per morto a causa della ferite riportate, venne abbandonato, mentre gli edifici attorno bruciavano a causa di un incendio appiccato dagli Hausa.
«Fu l’ultima volta che vidi e sentii mia mamma e mio papà, non ho più nessuna notizia, mi dicono di smettere di cercarli». Da qui è cominciata l’odissea di John: dapprima fu trasportato da alcuni conoscenti presso la chiesa di San Carlo, a Kano, raggiunta con un viaggio di quattro giorni in cui John fu medicato temporaneamente da coloro che lo aiutarono.
La chiesa era più sicura dell’ospedale, dove i Birom potevano rintracciarlo. A luglio, però, la chiesa fu oggetto di un attacco, esplose una bomba e gli assalitori iniziarono a sparare all’impazzata sulla folla. John riuscì a fuggire, mettendosi in salvo: lo stesso giorno decise di lasciare la Nigeria. Rimase per qualche giorno in Niger, dormendo per strada e subendo l’attacco di criminali alla ricerca di denaro; poi si spostò in Algeria, dove, però, la polizia lo individuò e, essendo privo di documenti, gli fu intimato di lasciare il Paese: «Decisi allora di salire su un camion diretto in Libia, ma il conducente ci sequestrò e ci picchiò ogni giorno al fine di ottenere dei soldi in cambio della libertà».
Quando John parla dei nove giorni che passò sotto sequestro si fa più cupo e abbassa lo sguardo: «Gli escrementi si facevano nella stanza in cui dormivamo e poi si gettavano fuori dalla finestra, non ci diedero cibo, rimasi nove giorni senza mangiare, ci davano solo un po’ d’acqua, ma io pregavo, non solo per la mia salvezza, ma per la salvezza di tutti».
Quando vennero caricati in un altro camion per essere trasferiti, John e altri compagni si lanciarono giù dal mezzo in corsa: dal nulla, nel deserto, passò un altro camion; il conducente li caricò e li portò a casa sua dove offrì loro cibo e acqua.
«In tutto questo io tenevo sempre con me il mio crocifisso” spiega John “e quando l’uomo lo vide mi prese sotto la sua protezione, tanto da portarmi a Tripoli».
John venne imbarcato, ma lui non aveva mai sentito parlare di Italia, non sapeva cosa stesse succedendo: «Solo quando sbarcai a Lampedusa capii dove mi trovavo, e da lì venni trasferito a Mira». La famiglia di John è cristiana cattolica, e sia il papà che la mamma furono battezzati, ma ogni volta che si provava a procedere al rito per John c’era qualche guerriglia in città: «Finalmente ora potrò essere battezzato anche io. Non è qualche cosa che desidero solo adesso, visto che mi trovo in Italia, è un obiettivo che ho sempre avuto e ho sempre sofferto molto per non esserci mai riuscito. La fede mi ha dato la forza per sopravvivere e mi ha anche salvato, visto che è grazie alla mia religione che ora mi trovo qui».
Eppure altri immigrati non sarebbero così felici di trovarsi in Italia: «Tanti amici hanno lasciato il Paese, preferendo la Germania, perché qui veniamo trattati come persone diverse. Siamo profughi o immigrati, prima di essere uomini, e non è piacevole». È per questo che John ha deciso di raccontare: «Credo che la mia testimonianza possa essere utile a far capire come, nonostante il colore della pelle, io sia un cattolico come voi e, prima ancora, un uomo come voi».
Silvia Marchiori