«Mi trovo di fronte una persona, e mi trovo di fronte un tumore: devo conoscere a fondo entrambi i miei interlocutori, per prendere in cura il primo, e per aggredire il secondo»: ragiona con una grande lucidità, il Primario Imad Abu Rumeileh, quella stessa lucidità con cui nel suo lavoro come Radioterapista oncologo si trova ogni giorno ad osservare la persona malata, appunto, e poi quel mostro che oggi ha tanti nomi diversi, ma che una volta si chiamava semplicemente “cancro”.
Come ci si sente, dottor Abu Rumeileh, quando si prende in mano una nuova cartella clinica, e si affronta un nuovo caso in cui è in gioco la vita di un paziente?
Ci si prepara ogni volta ad intraprendere una duplice sfida. Ogni caso infatti si sdoppia, e richiede una duplice analisi. È come se ogni cartella clinica, ogni dossier in cui sta scritto il presente e anche il futuro di un paziente, si sdoppiasse in due differenti cartelline: nella prima c’è la persona malata, nella seconda c’è il nemico, il tumore; di entrambi è fondamentale che il medico conosca il più possibile.
Perché è importante conoscere i risvolti della vita del malato? In realtà quello che vi viene chiesto è debellare una malattia precisa, ben localizzata…
Al contrario. Il medico che si prepara ad agire scegliendo trattamenti e terapie ha assolutamente bisogno di considerare molteplici aspetti. L’azione di cura avviene all’interno di un sistema ampio ed articolato, di cui non fanno parte solamente la persona malata e la neoplasia insorta; è fondamentale conoscere le altre patologie di cui il paziente soffre, gli elementi di forza così come i punti di debolezza… Non posso iniziare le terapie contro il tumore che ha colpito una persona se non analizzo la sua complessità e tutto ciò che lo circonda: devo conoscere il contesto in cui vive, la rete familiare e il supporto di cui dispone. Infatti, la comparsa della neoplasia non minaccia solamente la vita del paziente, ma è tutto il contesto a risentirne; pertanto tutto il sistema va coinvolto nel percorso, nella terapia, per costruire insieme la miglior strategia terapeutica praticabile nel caso specifico. Per fare bene il suo mestiere, il medico Radioterapista deve nutrire un incondizionato interesse verso le persone, dev’essere un profondo conoscitore dell’animo umano. Inoltre, un reparto di Radioterapia deve proporre, come facciamo noi, servizi di specifico supporto psicologico, e di specifico supporto nutrizionale, e locali che, per quanto possibile, grazie agli arredi, ai colori, alle immagini siano accoglienti e diano speranza.
Poi però c’è un momento in cui, dopo aver guardato in faccia la persona malata, il medico guarda in faccia il tumore, l’avversario…
Sì, c’è un momento in cui si prende in mano la seconda “cartellina”. E si comincia a delineare la sfida tra il medico e il tumore, quello specifico tumore, con quelle specifiche caratteristiche, in quella specifica collocazione. E qui entra in gioco la competenza del Radioterapista oncologo, la sua preparazione, l’esperienza clinica che gli consente di adottare la miglior strategia di cura e di decidere per un trattamento radioterapico esclusivo, o una radioterapia associata alla chirurgia o alla chemioterapia. Inoltre è fondamentale un’approfondita conoscenza sul fronte tecnico, per utilizzare al meglio le strumentazioni sofisticate della radioterapia, come è altrettanto fondamentale la collaborazione con i “fisici medici”, ossia quegli specialisti che trasformano in azione – o meglio in “radiazione” – il progetto terapeutico del medico radioterapista.
Penso al momento in cui, dopo averle lette, lei chiude le due “cartelline” ideali che stanno nella cartella clinica, quella che fotografa il paziente, e quella che fotografa il tumore. Lei sa già, in quel momento, che esito avrà la sfida?
Certo: a volte, purtroppo, la sfida non ha esito positivo. Un reparto che si propone ai malati oncologici deve essere strutturato anche con percorsi e con personale medico dedicato a questa tipologia di pazienti. Altre volte invece, quando chiudo il dossier ho davanti due strade: lavorare per curare il male e guarire la persona, oppure lavorare per “cronicizzare” la malattia, per renderla stabile. D’altra parte, quante persone convivono con il diabete? E quante sono le persone che si sottopongono regolarmente alla dialisi? Allora ci può stare anche che si conviva con il tumore. Continuare a vivere, con una buona qualità di vita, è comunque una vittoria. (GV)