Il Patriarca cita Andre Agassi, uno dei più grandi campioni di tennis di tutti i tempi, per riflettere sulla vita, sull’esperienza della malattia e sulla sanità.
Lo fa a Villa Salus, a Mestre, domenica 11 febbraio, durante la visita che compie all’ospedale retto dalle suore Mantellate Serve di Maria, in occasione della Giornata del Malato.
Non è consueto che un vescovo citi un grandissimo dello sport. Mons. Moraglia lo fa con il campione statunitense, numero 1 al mondo tra gli anni Novanta e gli anni Duemila. E la ragione è rilevante: «Cito una frase che mi ha colpito – afferma il Patriarca Francesco – e che Andre Agassi scrive nella sua biografia “Open”. Il libro è una critica feroce contro suo padre, un pugile che aveva combattuto anche alle Olimpiadi e che aveva deciso che uno dei suoi quattro figli avrebbe dovuto diventare campione per eccellenza. In effetti ci riuscì con il più piccolo, Andre. Ed è lui stesso che parla di una macchina inventata dal padre, il Drago, che buttava migliaia di palline alle quali il figlio doveva rispondere nel modo giusto. E quando questo non avveniva, il padre diventava un despota. Poi arriva il grande successo; eppure, questo tennista che in 21 anni di carriera ha guadagnato 181 milioni di dollari e che ha vinto tutti i tornei internazionali del Grande Slam, ad un certo punto scrive: “L’avevo dimenticato, ma è nei corridoi degli ospedali che si capisce davvero che cosa è la vita”».
Una frase così, detta da un grande campione, da un uomo allevato dal padre per vincere e per essere una macchina perfetta, fa risuonare meglio la verità: «Cioè il fatto – spiega mons. Moraglia – che noi comprendiamo che cosa è la nostra vita quando ci imbattiamo nei nostri limiti. Credo che questo valga anche per un medico: che è più medico quando si è imbattuto personalmente in situazioni in cui ha toccato con mano i limiti umani. È allora che alla competenza e all’efficienza si aggiunge l’umanità».
In questo senso, la consapevolezza del limite non riduce valore, ma ne aggiunge, all’opera del medico e dell’operatore sanitario: «La medicina, che ha fatto enormi progressi, se vuole essere umana e non vuole inseguire sogni che si trasformano in incubi, deve sapere che, oltre ad essere una scienza, è anche un accompagnamento e, se la parola è intesa bene, è un’arte. L’arte, cioè, di chi si prende cura del malato e molte volte lo guarisce, ma altre volte sa che lo potrà solo accompagnare. E guai se lo facesse con meno entusiasmo e forza di chi sa, invece, di poter guarire».
E questo perché – sottolinea il Patriarca – la vita umana, «a differenza di quanto dice la cultura dell’efficientismo, del successo e dei risultati, ha un senso e un valore da scoprire e realizzare anche quando prende la forma della sofferenza. Una sofferenza non certo ricercata, ma affrontata e condivisa, affinché la nostra società e cultura mantengano un volto umano». Proprio quello che Andre Agassi ha mostrato d’aver capito con una frase della sua biografia.
Dopo la riflessione, contenuta nell’omelia della Messa celebrata nella cappella dell’ospedale, il Patriarca ha visitato i reparti di Villa Salus, salutando le persone ospiti e intrattenendosi con medici, infermieri e personale della struttura.