Al largo di Venezia, sempre più spesso, c’è aria di tempesta. Fenomeni non di enorme intensità, ma che si ripetono sempre più spesso e aumentano di frequenza. L’ennesimo segno dei cambiamenti climatici che compare anche a quindici chilometri dalla costa veneziana, dove a registrarli ci sono i ricercatori del Cnr – Ismar, l’Istituto di Scienze Marine che ha sede in città, ed in particolare le analisi di Angela Pomaro, che a Venezia potremmo chiamare “la ricercatrice delle onde”.
Proprio le ricerche di Angela Pomaro e di altri esperti del settore oceanografico sono al centro questo sabato del convegno “Idee per un’ecologia che connette – Verso il cambiamento sostenibile”, organizzato il 23 aprile dalle 8 alle 13 presso la parrocchia SS. Trinità di Mestre dall’associazione Dialoghi per la Città con “Insieme si può fare molto”. Relatori come Francesca Santoro Coordinatrice del Programma di educazione all’Oceano Unesco, don Fabio Longoni già Direttore Nazionale Cei per la Custodia del Creato e l’assessore ad Urbanistica e Ambiente Massimiliano De Martin si confronteranno con tavoli tematici di discussione insieme ai cittadini a partire da dati di grande rilevanza che toccano l’intero pianeta, e sono osservabili direttamente appena fuori la laguna veneziana.
E’ proprio qui, a 15 chilometri dalla costa sulla Piattaforma Oceanografica Acqua Alta del Cnr, nata nel ’70 dopo l’alluvione del ’66, che la ricercatrice Angela Pomaro osserva il mare ed in particolare le sue onde. Qui ha notato l’aumento dei fenomeni di tempesta: «L’incremento – spiega – è di circa l’1 per cento su tutte le tempeste caratterizzate da un’altezza d’onda significativa, e cioè tra i 50 centimetri e i due metri. La corrispondente altezza d’onda media, che nel decennio 1979-1988 era di circa 34 centimetri, nel decennio 2006-2015 è diventata pari a 47 centimetri, proprio per effetto di un maggior numero di tempeste».
Un fenomeno che non si limita ad alzare il livello di pericolo per la navigazione – anche se la stessa ricercatrice rivela l’esistenza nell’alto Adriatico di onde alte talvolta fino ai cinque metri – ma che segnala possibili conseguenze tutt’altro che trascurabili. «La nostra piattaforma ci permette di basare i nostri studi non soltanto su modelli e proiezioni, come avviene nella maggioranza di casi, ma anche su osservazioni dirette. Avere la possibilità di misurazioni per un periodo di tempo lungo 40 anni è un unicum, un record», spiega Pomaro. «La disponibilità di dati ci permette di capire gli effetti dei cambiamenti climatici. Spesso parlando di questi mutamenti viene citato l’aumento di fenomeni di grande intensità, come ad esempio i cosiddetti “medicane”, gli “uragani del Mediterraneo”. Certo questi esistono, ma non è questo il cambiamento che viene registrato dai dati. Si avverte piuttosto un aumento per l’Adriatico del numero di tempeste. Questo ha comunque delle ripercussioni, a partire ad esempio dai fenomeni di erosione costiera», specifica la ricercatrice. «Possiamo anche vedere – continua Pomaro – come il cambiamento delle tempeste e dei percorsi delle correnti sia incrementato dall’innalzamento del livello del mare; l’onda, d’altra parte, dipende dal livello dell’acqua. Vediamo come tutto sia quindi collegato, e come allo stesso tempo sia difficile predire tutte le conseguenze a cascata di un singolo cambiamento».
Proprio sull’innalzamento del livello del mare le ultime proiezioni climatiche hanno lanciato di recente una visione allarmante: 80 centimetri in più entro la fine del secolo. Dato attendibile? «Un dato simile è attendibile, ma non dimentichiamo che si basa su modelli che tengono conto di quattro diversi scenari, dal più ottimista in cui più paesi mettono in atto politiche di riduzioni delle emissioni, al più catastrofico in cui altri paesi non produttori aumentano la propria capacità industriale accrescendo anche le emissioni. Quello di cui dobbiamo tener conto è anche l’imprevedibilità di questi modelli: la guerra in Ucraina, per esempio, ha spostato completamente l’attenzione dagli obiettivi di riduzione delle emissioni riportandoci a parlare di centrali a carbone».
Maria Paola Scaramuzza