Presto nasceranno dei boschi a Porto Marghera. Ma saranno strani: cresceranno dentro a tubi alti dieci metri, piazzati accanto alle ciminiere delle fabbriche. Saranno vere e proprie foreste liquide…
Detta così è un paradosso. In effetti, però, è una cosa molto più concreta e realizzabile, che tra breve tempo è probabile vedremo. E sarà un aiuto consistente contro l’inquinamento.
È questo, infatti, uno dei progetti più avanzati del Green Propulsion Lab, il laboratorio sperimentale (detto anche “Campo Prova”) realizzato da Veritas a Fusina, nell’ambito dell’accordo per Porto Marghera tra Comune di Venezia e Ministero dell’Ambiente. «Lo scopo del GPLab – precisa il direttore, Graziano Tassinato – è di sviluppare tecnologie innovative sperimentali per la riconversione di aree industriali, a partire da Porto Marghera».
«Noi lavoriamo sui paradossi», attacca Tassinato, che si diffonde sul progetto con le microalghe, quello delle foreste liquide: «Queste colture, che vivono in cilindri pieni di acqua, con un po’ di sali, sono grandi 3-4 micron e per ogni centimetro cubo ce n’è un miliardo: un miliardo di nano-piante che riescono ad assorbire anidride carbonica e, grazie alla fotosintesi, a produrre biomassa. Da questa biomassa estraiamo una specie di olio che facciamo diventare biocarburante: abbiamo fatto viaggiare così un vaporetto e una barca ibrida di Veritas, che ancora circola grazie al biodiesel estratto dalle alghe. Ma si possono fare anche farmaci, antiossidanti, coloranti naturali…».
Poi c’è una questione di tempo: un vero bosco ci mette vent’anni per crescere; alle microalghe bastano tre ore. Una bella differenza, no?
E il “funzionamento” delle microalghe? «Fanno fotosintesi – spiega il direttore del laboratorio – assorbono cioè anidride carbonica, emettono ossigeno e producono cellule. Proprio come le piante “normali”. Ma lo fanno con una velocità di riproduzione così grande che le rende più efficienti. In sostanza, si comportano come i batteri».
Non solo: sono anche grandi divoratrici di anidride carbonica. «Noi concentriamo le microalghe in un tubo: lì riescono a vivere con concentrazioni di CO2, che noi “spariamo” dentro al tubo, del 7-8%, mentre le normali piante lavorano con 20 parti per milione di anidride carbonica».
Anche questo significa che un processo veloce si compie in poco spazio: per sequestrare l’anidride carbonica non serve una foresta ma qualche metro cubo di alghe. «Tant’è vero – riprende Graziano Tassinato – che stiamo presentando questo progetto all’Agenzia spaziale europea, perché può diventare un modello utilizzabile a livello di stazione spaziale. Si mangerebbero la CO2 prodotta dagli astronauti e in cambio darebbero ossigeno. Non potremo colonizzare Marte con le piante di casa nostra, ma possiamo incapsulare il motore della vita nel nostro pianeta ed esportarlo in una stazione spaziale».
Ma la prima applicazione è sulla Terra, molto vicina a casa nostra: «Abbiamo avviato un progetto con la Regione Veneto, il progetto Phoenix. L’obiettivo è sequestrare l’anidride carbonica dal fumo di scarico delle ciminiere, per metterlo dentro a bombole e darlo poi da “mangiare” alle alghe. In pratica, realizziamo la gabbia del carbonio: non facciamo sparire la CO2, ma la intrappoliamo nei siti di produzione, così da non immetterla in atmosfera. E lo facciamo coltivando boschi a Porto Marghera, ma dentro tubi».
Il “tubo” con cui si è condotta la sperimentazione al GPLab ha dato ottimi risultati; adesso si tratta di ampliare l’applicazione e portarla su larga scala: «Stiamo aspettando – conclude Tassinato – la tecnologia che ci consentirà di estrarre l’anidride carbonica dai fumi. Si tratta di un impianto per cui gli scarichi degli stabilimenti passano attraverso una serie di sistemi chimici e la CO2 viene separata. Così il fumo esce senza anidride carbonica, che invece viene stoccato in bombole e consegnato alle fameliche microalghe».
Giorgio Malavasi