«La soddisfazione più grande è vedere che i miei bambini di una volta ora portano qui i loro figli: vuol dire che ho lasciato un buon ricordo». Non va tanto più in là nel parlare di sé Liana Cattai, riluttante ai riflettori. Dopo 42 anni di onorato insegnamento alla scuola d’infanzia di Eraclea Mons. Ghezzo – «è stata la mia casa» -, dal 1° gennaio si godrà la famiglia. Con uno stato d’animo contrastante: da un lato, si sente sollevata da un lavoro che ora avverte più faticoso; dall’altro, presagisce la nostalgia di un mondo che da sempre è stato suo. E per il quale ha tenacemente lottato.
Per motivi familiari scartò l’idea di diventare puericultrice e scelse di insegnare: «Ho saputo che a Eraclea le suore cercavano una maestra d’asilo, mi sono presentata a suor Florenziana (con cui ci sentiamo ancora), che mi “ha presa”. Pensavo che poi l’estate avrei fatto la stagione; invece, giugno e luglio alla fine li ho passati a Eraclea Mare, alla colonia Pasti, coi bambini dell’asilo e delle elementari e i ragazzi delle medie. Già al primo anno mi ero innamorata del lavoro». Che col tempo è cambiato… «Non perché siano diversi i bambini: sono sempre uguali… il loro dna è quello… Sono cambiati i genitori: è un problema educativo». E i casi di iperattività? «Ci sono sempre stati. Adesso vi si presta più attenzione: quasi quasi i genitori sono più contenti di poter esibire questa diagnosi, perché così scaricano le responsabilità su altri esperti…».
Le fatiche educative sono il sale della missione scolastica: «Però è più impegnativo accompagnare l’inserimento di nuovi insegnanti – e ne sono passati tanti – che quello dei bambini…».
Per lei scuola vuol dire curare assolutamente la qualità del servizio: «Una scuola paritaria cattolica deve differenziarsi da quella statale, concentrata – così almeno era una volta – solo sulla didattica. Noi dobbiamo puntare sulla sperimentazione: i passi innovativi compiuti sono un aspetto molto bello della nostra scuola, al di là del contenuto valoriale offerto. Ad esempio, abbiamo provato a lavorare a sezioni aperte e con tanti laboratori, soprattutto prima del covid». Non si tratta comunque di inventare chissà quali attività stravaganti: «Siamo in rete con altre scuole e seguiti da un pedagogista esterno, il quale ci dà gli input», che sono garanzia di serietà. «La nostra scuola si è sempre appoggiata ad esperti: psicologi, pedagogisti… Non ci si può muovere da autodidatti; anche gli insegnanti hanno bisogno di formazione continua. Del resto, alla fine dell’anno, dobbiamo rendere conto del lavoro svolto. I bambini bisogna farli divertire, coccolarli, ma insegnando loro il rispetto: regole da impartire da subito». Meglio se in collaborazione con i genitori… «Ci tengo a coinvolgerli nelle nostre attività. Che possono diventare educative anche per loro. E mi aiutano a conoscere l’ambiente dove vivono i bambini; loro sono contenti di mostrare ai genitori quello che imparano. Ma papà e mamma oggi vanno di fretta; pensano che fermarsi sia tempo perso. Invece è importante accompagnare con calma i figli e salutarli serenamente. Se perdi questa occasione, non la recuperi più».
Gli anni del covid sono stati difficili: «…duri, ma i bambini sono stati bravi. Abbiamo faticato il doppio, dividendoli in due bolle, con mascherine e visiere. Facevamo cose alternative, ma loro erano sereni e si divertivano. Abbiamo “vissuto” di più i bambini».
Qual è il futuro della scuola? «Con l’attuale parroco, don Davide Carraro, gli iscritti sono aumentati. Lui ha creduto nelle proposte che facevo e mi ha dato forza per far liquidare la cooperativa. Tuttavia c’è sempre quella comprensibile preoccupazione economica che rischia di appiattirci sul modello statale. Anche per questo è importante insistere sul supporto esterno di figure qualificate».
E il futuro della pensionata maestra Liana? «Devo ancora abituarmi all’idea… A scuola, più che lavorarci… ci ho vissuto».
Giovanni Carnio