La Confessione? Non è scontato che sia in crisi, si pensi ai santuari. Piuttosto è una “crisi di fede” che abbraccia l’ambito ecclesiale. Così il cardinale Mauro Piacenza, Penitenziere Maggiore della Penitenzieria Apostolica, legge la vita e la pratica penitenziale della Chiesa nel contesto pastorale attuale. E tra le problematiche più rilevanti il cardinale Piacenza segnala «la diffusa incapacità di confessarsi bene, che risente della mancanza di una effettiva “scuola” che insegni uniformemente ai fedeli il senso della Confessione e le modalità concrete per celebrarla».
Eminenza, dal suo osservatorio particolare, che le dona la possibilità di uno sguardo su tutta la Chiesa, come vede la pratica del sacramento della penitenza oggi?
Questo sacramento fondamentale lo dobbiamo veramente imparare di nuovo. Già da un punto di vista puramente antropologico è importantissimo, da una parte, riconoscere la colpa e dall’altra, esercitare il perdono. La quanto mai diffusa mancanza di una consapevolezza della colpa è un fenomeno molto preoccupante del nostro tempo. La perdita del senso del peccato va di pari passo con la perdita del senso della santità e maestà di Dio., il senso del verticale che sovrasta e rende possibile l’orizzontale. Il dono del sacramento della Penitenza consiste quindi non soltanto nel fatto che riceviamo il perdono, ma anche nel fatto che ci rendiamo conto, innanzitutto, del nostro bisogno di perdono; già con ciò veniamo purificati, ci trasformiamo interiormente e possiamo poi comprendere anche meglio gli altri e saperli perdonare.
In un contesto sociale fatto ancora di molto dolore e di incertezza, stiamo vivendo i primi giorni della Quaresima. Il sacramento della Penitenza che “ruolo” può giocare per una guarigione collettiva?
Il fatto che il sacramento della Riconciliazione in larga misura sia quasi scomparso dalle abitudini dei cristiani è sintomo di perdita di veracità nei confronti di noi stessi e di Dio; una perdita, che mette in pericolo la nostra umanità e diminuisce la nostra capacità di pace. L’unità di colpa, penitenza e perdono è una delle condizioni fondamentali della vera umanità, condizioni che nel sacramento ottengono la loro forma completa, ma che, a partire dalle loro radici, fanno parte dell’essere persone umane come tali. Teniamo presente che la vita ordinaria del battezzato cattolico, magari anche frequentante con una certa regolarità, di fatto si svolge – o meglio, si agita – dentro una dimensione sostanzialmente intramondana, nella quale l’esperienza ancora antropologicamente significativa del “senso di colpa” non matura quasi mai in “senso, percezione del peccato”, quest’ultimo inteso non solo come “trasgressione di una regola morale” ma anche e soprattutto come fallimento esistenziale. La persona di Cristo, che dovrebbe offrire alla coscienza il parametro oggettivo relazionale di una vita umana compiuta, rimane spesso nebulosa e astratta o confinata dentro riletture superficiali e parziali, ideologiche e fuorvianti, tipiche del nostro tempo e comunque sganciate da un sano riferimento ecclesiale. In altre parole, anche la coscienza del fedele, solitamente, non esce da sé stessa e dalla autoreferenzialità, diventando di fatto individuale e non più relazionale, rimanendo sprovvista di qualsiasi parametro oggettivo ed autorevole. Tale coscienza non ammette né giudici, né medici. Viene a mente il seguente passo evangelico: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: noi vediamo, il vostro peccato rimane” (Gv 9,41). Così il travaglio morale che pure non è assente dall’uomo del nostro tempo, non viene correttamente interpretato e riferito alla sfera spirituale, piuttosto soltanto a quella psicologica. Ed è solo in questo ambito che si cerca un rimedio, oppure in esperienze parareligiose di ben dubbia validità. La terapia allora è quella di percorrere itinerari di fede articolati. Bisogna rimettere al centro il cammino di conversione, intesa come apertura del cuore alla ricerca di una possibilità di vita piena, per cui la domanda sulla “vita eterna” (Mc 10,17) dovrebbe tornare ad essere spontaneamente espressa. Occorre rilanciare la priorità della formazione remota, di lungo periodo e largo respiro, tesa allo sviluppo di una coscienza personale autentica.
Possiamo parlare di una disaffezione dei fedeli?
Contrariamente ad una concezione piuttosto diffusa negli ambienti ecclesiastici, non darei però per scontata la generale disaffezione dei fedeli, e dei giovani soprattutto, verso la Confessione; prova ne è l’afflusso considerevole di penitenti in santuari ove l’accesso alla Confessione è maggiormente facilitato, oppure in occasione di pellegrinaggi. Parimenti non mi sembra esatto parlare di crisi della confessione, quasi si trattasse di dover aggiornare il sacramento alle sensibilità correnti, oppure inventarsi qualcosa per renderlo attraente. Si dovrebbe piuttosto parlare di “crisi di fede” più in generale nell’affrontare vasti problemi ecclesiali. Tali approcci, per la Confessione, rischiano implicitamente di trascurare che l’efficacia di grazia del sacramento (e dunque la sua convenienza all’umanità di ogni tempo e luogo) è invece esattamente il punto da cui iniziare a pensarlo correttamente e dispensarlo fruttuosamente.
Quali sono i problemi più ricorrenti nella pratica del sacramento della Penitenza?
Tra le problematiche più rilevanti, segnalerei la diffusa incapacità di confessarsi bene, che risente della mancanza di una effettiva “scuola” che insegni uniformemente ai fedeli il senso della Confessione e le modalità concrete per celebrarla con profitto spirituale. Non pochi fedeli, talvolta compresi chierici e religiosi/e, si confessano rimanendo nel vago spontaneismo, confondendo il peccato con il malessere, la colpa morale con il disagio emotivo, la confessione con il racconto di sé. Un certo disorientamento morale, alimentato anche da opinioni talora eterogenee all’interno della stessa compagine ecclesiastica, non facilita ai fedeli la formazione di un retto giudizio di coscienza, condizione per avvertire la necessità personale di accostarsi alla confessione. Ritengo vi sia necessità di confessori che, mentre esercitano il loro lodevole ministero, insegnino per così dire, in “corso d’opera” ai loro penitenti a ben confessarsi, raggiungendo con ordine i vari ambiti dell’esistenza e imparando a vedere la connessione che intrattengono con Dio e con la vita di fede.
Come rimediare?
Una ulteriore, rilevante problematica la identifico nella percezione che non tutti i sacerdoti in cura d’anime sembrano convinti della priorità e dell’efficacia evangelizzatrice di questo essenziale ministero, anzitutto offrendo la loro presenza per garantire tempi regolari in cui i fedeli sappiano di poter trovare un confessore a loro disposizione. Un sacerdote che siede con regolarità in confessionale, con il suo semplice esserci, è segno e offerta del perdono di Dio, che precede il pentimento individuale e lo rende possibile. Parimenti, anche nella pratica omiletica il riferimento alla Confessione è scivolato sullo sfondo. Tenendo conto che i pochi minuti dell’omelia domenicale costituiscono realisticamente l’unica occasione di formazione regolare per la maggior parte dei fedeli, trascurare in essa i possibili riferimenti alla Confessione è, a mio avviso, una opportunità mancata.
Laddove il contesto parrocchiale non favorisca l’accesso dei fedeli alla Confessione (ad esempio, per il cumulo di più parrocchie affidate ad un unico sacerdote), tale istanza andrebbe ricuperata a livello diocesano, assicurando dei ‘polmoni’ geograficamente distribuiti sul territorio della diocesi, verso cui indirizzare i penitenti, con orari strategicamente intelligenti e cartelli segnaletici posti in tutte le chiese del territorio (tenendo presenti in particolare i santuari e le chiese rette da comunità religiose) e garantendovi la disponibilità di un numero congruo di confessori adeguatamente preparati. Al proposito occorrerebbe predisporre iniziative di formazione qualificata per i Confessori e la costante qualificazione del loro così importante ministero.
La promozione della Confessione tra il popolo di Dio non risulterà efficace se i sacerdoti non saranno essi stessi personalmente convinti della sua necessità per la vita cristiana; i primi apostoli della confessione restano infatti i buoni confessori. In questa direzione andrà orientata la formazione dei futuri sacerdoti, così da concepire la Confessione non tanto come sacramento ‘di rimedio’, bensì come nucleo propulsivo della vita spirituale, di cui i futuri sacerdoti avvertono la dolce necessità anzitutto per se stessi, quindi per le anime a loro affidate. Sacerdoti così formati non esiteranno a consacrare ampie porzioni di tempo e di energie a questo lavoro nascosto, ‘artigianale’, di formazione delle coscienze.
Giacché la pratica fedele della Confessione influisce direttamente sul tenore della vita spirituale, essa risulterà determinante per promuovere una incisiva e duratura riforma del vissuto ecclesiale. Una Chiesa ‘in uscita’, perché apostolicamente attrezzata e spiritualmente ben formata, passa senza dubbio attraverso l’inginocchiatoio del confessionale.
Infine un chiarimento per quanti potrebbero aver ricevuto l’assoluzione generale nel tempo di Natale: bisogna confessarsi individualmente?
Certamente, chi avesse ricevuto l’assoluzione nella terza forma (straordinaria) conformemente alle competenze del proprio Vescovo, in occasione del Santo Natale 2020, se non lo avesse ancora fatto, appena possibile, dovrà accostarsi alla Confessione individuale.
Marco Zane