Una delle tesi di chi vuole la separazione di Venezia e Mestre è che prima del 1926 le varie anime del territorio erano divise. Ma tale argomentazione è respinta al mittente dal fronte del no, di chi cioè vuole mantenere il Comune unico. A ricordare come Venezia, Mestre e gli abitati attigui sin dai tempi della Repubblica Serenissima fossero uniti è Franco Vianello Moro, tra i principali sostenitori dell’unitarietà, con l’associazione “Una e unica” (che perora l’astensione per il prossimo 1° dicembre). Ma oltre alle ragioni storico-culturali, vi sarebbe anche una ragione sociale legata all’esodo di abitanti veneziani a Mestre: «Dopo l’alluvione del 4 novembre del 1966 – un vero e proprio discrimine sociale, prima ancora che ambientale – molte persone furono costrette a lasciare Venezia e a trasferirsi a Mestre. Non nascondiamoci dietro a un dito: molti abitanti di Venezia – ricorda Vianello Moro – vivevano al piano terra in abitazioni umide e insalubri, senza bagni e senza riscaldamento, in una situazione indecorosa. Erano case non diverse da quelle dei Bassi di Napoli». Questo significa che negli anni ’70 e ’80 tanti mestrini sono nati da genitori veneziani, dunque le due città sono collegate in maniera indissolubile per via delle parentele.
Esodo inevitabile. Ma anche senza l’alluvione del ’66, l’esodo sarebbe avvenuto comunque, proprio perché tante di quelle case al piano terra erano inabitabili. «Una qualsiasi amministrazione pubblica, oggi, quelle abitazioni veneziane degli anni ’60 le dichiarerebbe inagibili» continua Vianello Moro, rammentando pure chi dalle due città si reca nell’altra per lavoro o studio. Oltre a motivi di natura storica e socio-familiari, Vianello Moro indica anche svariati esempi pratici-materiali per i quali una separazione sarebbe a suo dire deleteria. In primis per non essere irrilevanti sul piano nazionale (ma anche sovranazionale in un mondo ormai globalizzato). «Oggi il Comune di Venezia è l’undicesimo a livello nazionale. Se facciamo un downgrade a due piccoli comuni di 80 mila e 180 mila – chiosa Vianello Moro – si passa al ventesimo e quarantesimo posto. Si perde peso, anche nei rapporti di forza tra i territori». Se poi il Comune capoluogo di Regione diventasse piccolo, verrebbe surclassato da Padova o Verona, almeno sul piano sostanziale, più che in quello formale ovviamente.
Problemi di dimensione metropolitana irrisolvibili. In terzo luogo per Vianello Moro vi sarebbe una maggiore difficoltà nell’affrontare la dimensione metropolitana dei temi (grandi navi, turismo, ecc): già non si riesce a venirne a capo oggi con un comune unico (vista anche la presenza di svariate entità che da decenni non riescono a mettersi d’accordo sulle soluzioni per la laguna e le due città), figurarsi con due comuni separati e più piccoli.
Rischio di paralisi amministrativa? «Per non parlare della paralisi che si determinerebbe per anni e anni per la suddivisione del patrimonio. Rammento – continua Vianello Moro – il caso del Cavallino che se ne è andato nel 1998 e dopo 21 anni il contenzioso con Venezia non è ancora giunto a soluzione. E parliamo di soli 9 mila abitanti… Inoltre, guardando la situazione dal punto di vista della terraferma, mi pare che il referendum sia molto “mestrinocentrico”. Siamo così sicuri che gli abitanti di Marghera, Favaro o Chirignago si sentano così mestrini da voler entrare in questo nuovo Comune?». In effetti proprio nell’ultimissimo periodo sul territorio della terraferma erano iniziate a circolare voci sulla creazione anche dei comuni di Favaro o di Marghera. Infine: diversamente dal passato in cui, prima dei precedenti referendum sulla separazione, non si sapeva quale sarebbe stato il territorio dei due eventuali comuni separati, stavolta i confini sono già stati delineati dal quesito referendario e Mestre perderebbe – amministrativamente parlando – l’accesso alla laguna. Una cosa inammissibile per Vianello Moro in quanto la laguna è sempre stata un elemento unificante tra le due realtà.
Marco Monaco