«Einstein e Hannah Arendt erano immigrati che scappavano da dittature e fecero la ricchezza dei paesi in cui andarono». Lo ha ricordato Giampietro Pizzo, presidente dell’Associazione Microfinanza e Sviluppo, all’incontro del 3 maggio al Laurentianum di Mestre organizzato per la presentazione del libro “Come un sasso o come un fiore – storie di rifugiati e progetti di vita” (Ed. Sinopia), in cui si raccontano le storie di diversi migranti che sono riusciti a ricostruire qui una nuova vita, dopo essere scappati da guerre, dittature e povertà.
Nel libro si raccolta la loro difficile esperienza di fuga dall’Afghanistan e dall’Iran e di come siano arrivati a stabilirsi felicemente a Venezia.
Oltre a Pizzo, all’incontro – moderato da Alessandro Polet, presidente dell’Istituto di Cultura Laurentianum – erano presenti anche Enrico Di Pasquale della Fondazione Leone Moressa e una famiglia di origine afghano-iraniana che ha raccontato in concreto la propria storia (vedi pagina accanto) per arrivare in Italia.
«Affermando il timore nei confronti dei migranti si sta dando un messaggio che è antistorico», ha proseguito Pizzo: «Perché è il contrario della storia di questo continente. Negli anni ’30, ’40 e ’50 tantissimi cittadini europei sono emigrati. Oggi alzare i muri davanti a una situazione storica non contenibile, non è la soluzione per l’Europa. Costruire lavoro, prospettive e professionalità per i rifugiati significa invece modificare delle regole che oggi non funzionano più, come il Trattato di Dublino. Ed ecco il perché di questo libro: in esso c’è la speranza di riuscire a immaginare che accanto a tanta sofferenza di queste storie, è poi possibile riuscire a guardare oltre».
<+sott nel testo>La microfinanza come strumento.<+normale> Ma se alcuni migranti sono riusciti a farcela è anche grazie a strutture come l’Associazione Microfinanza e Sviluppo, alla quale nel 2010 venne commissionato dal Ministero degli Interni uno studio per capire se fosse possibile avviare servizi finanziari e accesso al credito rivolti a rifugiati e titolari di protezione internazionale.
«In questo studio – ha spiegato Pizzo – abbiamo scoperto che c’era, nonostante l’immagine stereotipata che molti hanno dell’immigrato rifugiato e disperato senza futuro, una gran voglia di costruire. E infatti abbiamo fatto partecipare 100 immigrati di diverse regioni italiane a un corso di formazione, da cui sono usciti 55 business plan di autoimpiego di attività da loro stessi promosse. Da questi sono poi nate 14 imprese, da noi finanziate e che tuttora sono in attività».
«Dobbiamo intervenire noi però – ha aggiunto Pizzo – perché il sistema bancario è refrattario a queste nuove realtà, in quanto ha strumenti di lettura sbagliati. Un migrante che vive qui, pur con un lavoro regolare, una famiglia e una storia alle spalle, nel momento in cui si presenta in banca a chiedere un prestito, viene respinto. Succede perché i sistemi di valutazione utilizzati dalle banche partono da criteri che fanno sì che quella persona sia considerata come uno sconosciuto. E se non si sa nulla di lui, la banca non dà credito. Ma se iniziamo a riattivare dei sistemi di informazione, grazie ai quali queste persone possono mettere in luce le loro competenze e professionalità, come abbiamo fatto noi questi anni, allora possono aprirsi delle piccole brecce. Infatti in 5 delle 14 imprese che citavo, oltre ai finanziamenti da parte nostra, vi sono stati finanziamenti anche da parte delle banche, che hanno riconosciuto come queste persone avevano un potenziale e che il loro progetto era valido. E visto che ci sono 5 milioni di migranti in questo Paese, bisogna considerare che sono un potenziale molto importante anche per gli istituti bancari che vogliono tornare a fare le banche e non soltanto continuare a “giocare” con la finanza».
Marco Monaco