Un viaggio in treno o in auto attraverso il territorio veneto dà spesso modo di notare la scarsità di aree non occupate da capannoni, fabbricati artigianali, costruzioni industriali.
Un’impressione che vede la sua conferma nell’ultimo studio commissionato dalla Confartigianato e realizzato da Smart Land, società veneziana che fornisce consulenze e servizi nell’ambito della pianificazione urbana e dell’economia del territorio.
L’indagine infatti rileva che il Veneto si aggiudica un non troppo esemplare primato per superfici di edifici pro capite, con 147 metri quadrati ad abitante (a fronte di una media nazionale di 90 metri quadri).
Un capannone su dieci è inutilizzato. Balza all’occhio che un capannone su 10 è inutilizzato, per un totale di 9.200 “buchi neri”, generati da una fase di espansione speculativa che ha segnato profondamente la nostra regione.
Solo nella provincia di Venezia i capannoni inutilizzati sono 1.432, dato che porta a 3,48 i metri quadrati in disuso per residente (leggermente inferiori alla media regionale, di 3,74 mq).
«Si tratta di una immagine reale ed emblematica del nostro territorio, che da un lato ha vissuto la bolla speculativa dei capannoni costruiti in sovrappiù grazie a facilitazioni fiscali o per pura speculazione sugli incentivi, ma che oggi ci presenta il conto e mette davanti due criticità», osserva il presidente della Confartigianato Imprese Città Metropolitana di Venezia Siro Martin. «Da un lato si è sprecato inutilmente territorio, dall’altro immobilizzati o comunque congelati i capitali investiti per costruire queste cattedrali nel deserto».
Negli ultimi sei anni recuperato il 10% dei fabbricati. Rispetto al precedente studio di Confartigianato, emerge tuttavia una nota positiva: dal 2016 al 2022, dopo un periodo di stagnazione, il mercato di questi immobili è ripreso, e negli ultimi sei anni i capannoni in disuso sono calati del 10,1% con il riutilizzo di 171 edifici nel Veneziano. «In base alle stime fatte sui 19 comuni campione presi in esame, abbiamo visto che in alcuni casi i capannoni sono stati riutilizzati così come sono, perché rivelatisi adatti alle condizioni di uso dell’azienda; in altri casi, anche se più rari, iniziano a essere effettuate demolizioni per poi costruire degli stabili più adeguati alle esigenze delle aziende; in altri casi ancora si sono avuti dei frazionamenti, quindi il capannone di una dimensione considerevole è stato suddiviso per creare spazi più piccoli rispetto a quello che è il capannone standard da 2.000 metri quadri», spiega Federico Della Puppa di Smart Land.
«Il problema rimane il riuso per il settore logistico, che necessita di spazi più grandi: quello è il comparto che oggi è in maggiore sviluppo e non riesce a trovare risposta nelle vecchie strutture, anche in quelle che erano state pensate per la logistica, ma di trent’anni fa. In generale notiamo che c’è un buon incontro tra piccole attività artigianali o industriali, che però spesso hanno anche bisogno di spazi con particolari caratteristiche, anche di immagine. Ad esempio, abbiamo visto casi di riuso in cui si è riusciti a mascherare l’aspetto precedente del capannone, posizionando delle nuove pareti o realizzando dei trompe l’oeil, sostanzialmente delle strutture che mascherano la struttura precedente trasmettendo un’immagine dell’azienda esteticamente migliore».
Il prato dove c’era il cemento? Rarità. Le sole demolizioni dei capannoni inutilizzabili e la conseguente rinaturalizzazione e rimboschimento del territorio “liberato” rimangono ancora soluzioni residuali: «I casi in questo senso sono ancora pochi», prosegue Della Puppa. «La Regione sta dando dei contributi per incentivarle, ma siamo in una fase iniziale, c’è ancora da capire effettivamente la potenzialità dello strumento. Ricordo un caso esemplare in questo senso nella Pedemontana, nel comune di Follina, dove sono stati demoliti 2/3 di un capannone di 20mila metri quadri. 7mila di questi sono stati riqualificati e, una volta terminate le demolizioni, il resto del terreno sarà reso area verde, dato che l’azienda che l’ha acquistato ha necessità di avere non solo una sede logistica e distributiva, ma anche un luogo in cui esporre i propri prodotti e un ritorno di immagine».
Un altro possibile uso dei capannoni dismessi ha a che fare con un tema particolarmente sentito in questi ultimi tempi: quello dell’efficientamento energetico. «L’utilizzazione dei tetti per installare pannelli fotovoltaici ai fini della produzione energetica, che oggi avrebbe ancora più senso non solo per le potenzialità di questo tipo di interventi ma anche per la possibilità di costruire comunità energetiche, è un altro tema importante, in direzione del quale si sta provando ad agire. A questo scopo stiamo aspettando da oltre un anno il decreto attuativo a livello nazionale, che a cascata permetterà di procedere ai decreti regionali e locali. Nel frattempo, alcune comunità energetiche hanno già fatto i primi passi burocratici iniziali, necessari prima dell’attivazione».
Il valore di molti capannoni? Praticamente zero. Il picco negativo di capannoni abbandonati si è avuto nella fase post-crisi del 2008, una delle cause più impattanti sull’alto numero a livello regionale. Ma non la sola: tra le altre anche speculazioni legate ad agevolazioni fiscali. «I decreti Tremonti 1 e Tremonti 2 hanno permesso negli anni Novanta di reimpiegare gli utili aziendali per costruire capannoni. Per questo furono fatti investimenti anche in assenza di utilizzazione in un momento espansivo dell’economia. Dopo la crisi economica del 2008, in cui molte imprese hanno delocalizzato o sono fallite, molte di queste strutture sono rimaste lì in attesa di utilizzo. Chi le aveva costruite pensava che un giorno avrebbe avuto un ritorno da quegli investimenti, ma quelle tipologie di fabbricati oggi valgono sostanzialmente zero. Questo è un tema difficilissimo da far passare agli imprenditori, i quali pensano che, avendo realizzato una cubatura, quella abbia un valore indipendentemente dal mercato: in realtà è più simile a un’automobile a fine vita, per la quale bisogna pagare anche per la rottamazione. Ecco perché molti preferiscono tenerli inutilizzati, dopo aver staccato le utenze. Inoltre, eliminando il tetto o parte di esso, il capannone viene declassato, cosa che permette di non pagare nemmeno l’Imu. A livello regionale, abbiamo stimato che ben 4 capannoni su 10 (il 41%, pari al 30% in termini di superficie) rimarranno difficilmente riutilizzabili per la loro scarsa attrattività, mentre un capannone su 5 di questo patrimonio non avrà altra prospettiva che la demolizione».
Eppure nuovi capannoni crescono… Nonostante tutto, rispetto al 2016 si rileva in Veneto un incremento dello stock catastale produttivo del 5,3%. Nuovi capannoni, quindi, sono stati costruiti. «Dal punto di vista catastale abbiamo visto un incremento nel numero di capannoni pari a 4.917 unità, per un totale di 97.130 unità produttive immobiliari a livello regionale nel 2021», sottolinea Della Puppa.
«Il problema, lo ribadisco, rimane la difficoltà di riuso di ciò che è inutilizzato e abbandonato per le nuove attività produttive, che non è adeguato alle nuove esigenze: capannoni vecchi, in condizioni di manutenzione non adeguata, poco attrattivi dal punto di vista logistico, che quindi sono totalmente inadatti per le imprese. Ormai il cambiamento del sistema produttivo e delle filiere necessita di strutture di un certo tipo, localizzate in ambiti ad alta accessibilità da adibire a nodi logistici. Tuttavia, ritengo che la tendenza nei prossimi anni sarà di una diminuzione dei capannoni vuoti e che si andrà nella direzione di un maggior riuso, se si troveranno dei sistemi di riutilizzazione adeguati e saranno varati incentivi a livello fiscale».
Un dato, questo, ribadito anche dal presidente Martin: «Lo studio ci ha evidenziato questi dati economici ed ecologici importanti su cui ragionare, soprattutto per impostare e programmare l’uso di questi spazi, che non possono restare per sempre abbandonati. Dovendo limitare l’antropizzazione del suolo, occorre pensare alle strategie per usare questo patrimonio, avviando un processo di rigenerazione urbana e territoriale che coinvolga le imprese, ma prima di tutto la politica. Continuare a costruire nuovi capannoni per dare risposte alle richieste del tessuto produttivo non è sostenibile, ma – ora lo sappiamo – basta intervenire sui troppi che già ci sono, con strumenti normativi ed aiuti ad hoc che li rendano appetibili per le imprese».
Valentina Pinton