Il reddito di cittadinanza? Per il momento è erogazione di un assegno; ci vorranno due anni prima che produca l’effetto di fare entrare qualcuno nel mondo del lavoro. Mentre la riforma più urgente è quella che porti ad avvicinare di più la scuola e le aziende, anche mettendo in discussione il valore legale del titolo di studio.
Lo dice Roberto Rossini, presidente nazionale delle Acli. Alle celebrazioni per la Festa del 1° maggio a Martellago, Rossini riflette per GV sui temi più caldi per il mondo del lavoro. «L’intenzione da cui esce il reddito di cittadinanza – spiega Rossini, 54 anni, bresciano – mi sembra positiva e condivisibile, anche perché di una riforma dei centri per l’impiego, in Italia, si è sempre parlato senza mai realizzarla. Sulla realizzazione effettiva di questo misura, però, ci sono dei dubbi molto forti. Quale tipo di dubbi?
Non è ancora chiaro, per esempio, il disegno complessivo di questa riforma. I “navigator”, poi, sono importanti, ma non basteranno: bisognerà prendere in considerazione i rapporti veri con le imprese e che queste si fidino. Ci vorranno almeno un paio d’anni. Insomma: l’intenzione è positiva, ma sulla realizzazione siamo molto scettici, perché non vediamo fatti. Al momento si sta traducendo tutto in erogazione monetaria di qualche assegno, al di sotto – per giunta – delle aspettative.
Il Decreto dignità, dice il Governo, comincia a produrre effetti benefici: nei primi mesi del 2019 c’è un aumento dei contratti stabili. Condivide che sia la strada giusta?
I numeri parlano, certo, ma dal punto di vista dei casi che abbiamo osservato abbiamo qualche perplessità. Oggi la vera scommessa si chiama flessibilità sostenibile. Bisogna cioè essere molto più flessibili rispetto alle esigenze di una produzione che cambia molto rapidamente per l’apporto tecnologico, pur garantendo alcuni “paletti” di dignità ai lavoratori. Credo che che si sarebbe potuto fare meglio, introducendo una vera contrattazione di secondo grado, quella tra singole aziende e sindacati. Non è la stessa cosa lavorare e produrre in Veneto o in Sicilia…
Lei è d’accordo, quindi, con l’introduzione dell’autonomia regionale, relativamente ai temi del lavoro?
Sui contratti di secondo livello sì, sui principi fondamentali no. Non ci possono essere legislazioni differenti se uno lavora in Campania o in Val d’Aosta. Ma le Regioni, dal punto di vista operativo, possono incentivare la contrattazione di secondo livello.
Il presidente dell’Inps Pasquale Tridico ha detto in questi giorni che in Italia urge recuperare due miliardi di ore di lavoro l’anno, perse dal 2008 per la crisi. E che, per farlo, occorre “lavorare meno, lavorare tutti”, riducendo gli orari di lavoro. È d’accordo?
Bisogna capire se “lavorare meno, lavorare tutti” è funzionale ai desideri di vita delle persone e alle esigenze delle imprese. Ci possono essere stagioni della vita e situazioni d’impresa molto diverse. Non irrigidirei la questione.
Si discute in questi giorni dell’introduzione del salario minimo: un disegno di legge è già in Senato. È una misura opportuna?
Non direi. Non si capisce perché questo tema dovrebbe essere normato dallo Stato. Anche in questo caso, nel Paese, ci sono condizioni ed esigenze così differenti che mi pare non sostenibile qualsiasi individuazione di salario minimo.
Qual è, oggi, la riforma più urgente da introdurre nel mercato del lavoro italiano?
Far dialogare meglio il mondo della formazione e quello del lavoro. In concreto: penso sia ora di aprire un dibattito sul valore legale del titolo di studio. Mio padre mi diceva sempre: “Fatichi cinque anni; poi, però, ha un diploma e un lavoro”. Adesso, invece, fatichi cinque anni e non hai la certezza di un lavoro. Bisogna perciò cercare di costruire dei percorsi di formazione professionale più vicini al mondo reale delle aziende. Questo, certo, salvaguardando la formazione di buoni cittadini, che studino anche storia, filosofia ed educazione civica.
Giorgio Malavasi