Un’estate con il fiato sospeso. Potremmo definirlo così questo periodo alternato tra ritorno all’ufficio e al lavoro, ferie un po’ più esigue del solito e figli tornati a correre liberi tra i giardini dopo mesi di clausura. Una parvenza di normalità, se non fosse per i grandi punti interrogativi che circondano la ripresa in autunno: si riuscirà a tornare a lavorare come prima? Scuole con o senza turni? Con o senza mensa? E le aziende, alle prese con profonde difficoltà economiche e con dipendenti con figli a carico e scuole che rischiano di funzionare a singhiozzo? «Il manager sceglie. L’imprenditore decide. Ebbene questo è il momento delle decisioni. Le nostre aziende devono decidere di dare priorità ai dipendenti, ma nel segno della corresponsabilità».
A dirlo è Bruno Martino, presidente dell’etichettificio Novarex e referente di Confindustria per le aziende del Miranese, come tanti altri alle prese con la gestione della ripresa dopo l’emergenza del lockdown. E la parola d’ordine, l’unica via d’uscita, pare essere sempre la stessa: flessibilità.
E’ quanto l’imprenditore veneziano ha messo in campo nei mesi passati, barattando una maggiore autogestione dei propri dipendenti con la responsabilità del risultato finale. «Nella mia azienda un dipendente può fare le sue otto o nove ore e poi andare a casa. L’orario preciso non è importante. Se si fattura oggi o si fattura domani, per l’azienda non cambia. Se un macchinario comincia a funzionare alle 5 del mattino o alle 7 non fa differenza. Cerchiamo di essere più flessibili possibile» afferma Martino.
«Certo il momento del covid ci ha colti tutti impreparati, lì c’è stato più di qualcuno che mi ha chiesto di restare a casa. E ognuno ha i suoi motivi – continua l’imprenditore – se ci sono dieci dipendenti in un ufficio uno avrà i figli a casa, l’altro dovrà andare in palestra, un altro avrà altri problemi: perché l’orario devo farlo io? La gestione di un ufficio amministrativo o commerciale può essere autonoma: ferie, permessi, orari, il gruppo li può gestire da sé». Un’idea valida unicamente per il lavoro d’ufficio? «Anni fa ho fatto un discorso simile ai miei dipendenti che lavorano nelle linee di produzione – spiega Martino – l’azienda cresce e va bene e a me serve un caporeparto: ma se assumo qualcuno che vi controlla, che viene a comandare, questo non vi piacerà. All’epoca abbiamo fatto un’altra scelta: un aumento di stipendio, nove ore di lavoro e qualche sabato in più e la responsabilità è loro, dei dipendenti. Il prodotto oggi è in mano loro in virtù della corresponsabilità, le trenta famiglie che dipendono dal nostro lavoro non vivono solo sulle mie spalle ma anche sulle loro».
Eppure la realtà diffusa in Veneto pare un po’ diversa. Secondo i dati diffusi recentemente dalla Fondazione Nord Est, le imprese venete che hanno attivato smart working e lavoro a distanza per i propri dipendenti sono stati solo il 22 per cento. Quasi il 30 per cento ha optato per la riduzione delle ore e dei turni di lavoro, 60 aziende su 100 hanno attivato la cassa integrazione e il 46 per cento sono ricorse a riduzione dei costi tramite ferie obbligatorie. A domanda diretta, il 78,4 per cento degli imprenditori definisce l’opzione dello smart working come impraticabile perché incompatibile con tutte o quasi tutte le mansioni dei propri dipendenti. Una situazione che si è tradotta con l’impiego del lavoro a distanza nei mesi di marzo e aprile per solo l’8,3 per cento degli addetti.
«Molti imprenditori non possono attivare lo smart working o meglio il “telelavoro”, perché badate con “smart” si intende ben altro, altri sono scettici» commenta Bruno Martino, «spesso si cade in un discorso di principio più che di sostanza, dovuto alla fatica di misurare il lavoro fatto a casa. L’attività deve essere invece basata sulla responsabilità che è anche dell’impiegato, non solo del datore di lavoro. Io ho messo due persone in telelavoro, l’attività deve funzionare prima di tutto nel rapporto con i colleghi in ufficio, dev’esserci collaborazione». E se il lavoro dev’essere smart, anche la scuola dovrebbe diventarlo: «Cerchiamo di cogliere in questa crisi anche l’opportunità. Il nostro modello scolastico è obsoleto, la modernità non può passare solo per una lavagna elettronica, i riferimenti devono cambiare» consiglia l’imprenditore.
Maria Paola Scaramuzza