«Domenica scorsa è successo quello che tutti noi gestori di rifugi di montagna temiamo. Alle 13.30 il tempo improvvisamente cambia e inizia a piovere. Quella è l’ora in cui in rifugio c’è un sacco di gente, ma per i protocolli anti-Covid nel mio rifugio possiamo accogliere al massimo 16 persone. Che cosa dovevo fare io? Sprangare le porte e lasciare fuori tutti gli altri?».
È uno dei tanti esempi che motivano la protesta dei gestori di rifugi alpini. «Le istituzioni non ci considerano per la peculiarità che siamo e decidono regole che non sono applicabili nel nostro caso»: lo sottolinea Mario Fiorentini, gestore del Città di Fiume, nel Comune di Borca di Cadore, e presidente di Agrav, l’associazione che ricomprende 44 dei 154 rifugi classificati del Veneto. Un’associazione nata tre anni fa, proprio per avere una voce presso le istituzioni. Giovedì 3 giugno ha scelto di farla sentire, quella voce, in un incontro promosso da Confapi Venezia.
Il caso delle restrizioni anti-Covid è il più lampante: «Non siamo stati contattati né ascoltati da nessuno, del tutto ignorati. E le regole che sono state stilate possono essere praticate da un albergo, ma noi non siamo un albergo, abbiamo caratteristiche del tutto particolari».
Un altro esempio? Non è più permesso distribuire coperte a chi vuole pernottare, solo lenzuola monouso. È poi vero che gli escursionisti da anni, in genere, portano con sé il sacco a pelo: «Ma se non lo fanno?», riprende un altro gestore: «Non è che li possa mandare via o lasciare al freddo».
E le ciabatte? Vietate. «Ma forse – ipotizza Fiorentini – chi ha scritto la norma pensava alle ciabatte di velluto degli hotel. Da noi si usano quelle di plastica, che basta immergere nella varechina per disinfettare…».
Insomma: protocolli creati senza sapere nulla delle difficoltà, ma soprattutto delle caratteristiche di un rifugio di montagna. (G.M.)
(Un più ampio articolo nel prossimo numero di Gente Veneta, in distribuzione da giovedì 10 giugno)