Ha 3 figli, 5 nipoti e 3 pronipoti. 5 anni di scuola, 39 di fabbrica, e 4 di tesseramento Pci alle spalle. Ma anche 36 di pensione, 37 di vedovanza, 30 di diaconato permanente e 19 di volontariato carcerario all’attivo. Il 17 novembre 2016, lui di anni ne farà 90, nel corso dei quali è stato catapultato «da un mondo totalmente agricolo a uno computerizzato: passando per carestie, guerre, bombe, vite perse, rivolte di classe, fame e paura». È il diacono più anziano della diocesi di Venezia. E nonostante la prossimità al secolo e due recenti interventi chirurgici, ancora oggi Giuseppe Pistolato si sveglia presto due volte la settimana per raggiungere, da Zelarino, il carcere di Santa Maria Maggiore. «Cerco di pensare ai bisogni dei detenuti, a partire dalle cose concrete. Vado in giro ad acquistare scarpe, ciabatte, maglieria intima e altre cose di prima necessità». La capacità di confortare cristianamente il prossimo è arrivata col tempo, perché Giuseppe riscontra in sé una timidezza cronica, «esagerata: anche da adulto non andavo mai a parlare con gli insegnanti dei miei figli, mandavo sempre mia moglie». Dopo la sua ordinazione, infatti, si è sentito subito «un semianalfabeta, accanto a tutte quelle persone più acculturate di me. Avevo una soggezione tremenda, anche nei confronti di coloro che avevano fatto le medie».
I traumi della guerra sono stati determinanti per la sua insicurezza? Sì. La mia famiglia è nata in questa piccola realtà, in un paese di campagna, rannicchiata nel suo guscio… Ho passato l’adolescenza sotto le bombe. Un giorno ho alzato la testa e ne ho vista una cadere perpendicolare al suolo, a 50 metri di distanza da me. Ha polverizzato un palazzo di tre piani. E poi la carestia, la paura. Avevamo poca terra da coltivare, lo Stato di dieci tessere annonarie (una per ogni componente della famiglia) ce ne ha tolte cinque. Abbiamo vissuto tanta fame.
Non ha mai dubitato di Dio dopo tutto quello che ha visto? Finita la guerra mi ero un po’ allontanato. Nei cantieri navali dove lavoravo sono subito sorte le prime cellule del partito comunista. Formavano gruppetti in mensa, portavano idee nuove. E anche io mi sono lasciato coinvolgere. Dopo ho letto di fatti inammissibili, come le purghe sovietiche di Stalin. E dopo 4 anni ho ritirato la mia adesione.
E il vero incontro con Gesù quando è stato? In quel periodo. Sentivo da tempo un bisogno straordinario di tornare alla pratica cristiana. È stato difficile perché lavoravo in un’area non favorevole alla fede. L’incontro con il Signore è avvenuto con gradualità. Quanto tempo ho passato a cercare un modo di reagire in quel contesto… Solo con Gesù mi sono sentito davvero libero, non ho mai provato una libertà simile nemmeno dopo la fine della seconda guerra mondiale.
È allora che ha deciso per il diaconato? No, è successo dopo la pensione. Don Piero Lucchetta è venuto a casa mia e mi ha parlato di diaconato permanente, un ruolo nuovo allora. Ho detto subito sì.
E com’è finito a supportare i carcerati veneziani? Nel Natale del ‘97 mio nipote, don Dino Pistolato, me l’ha chiesto. Quando gli ho detto sì, mi sono reso conto di non essere nemmeno mai passato davanti a un carcere. Da lì in poi ho cominciato a frequentare l’istituto di detenzione tutti i giorni.
Come si rivolge a loro? Il carcere diventa una scuola. Non ci vado mai con la convinzione che abbiano commesso qualcosa. E non guardo a loro in questi termini. Offro la mia amicizia considerando la persona, non il carcerato.
Cosa cercano in lei? La fede? Molti detenuti manifestano già la fede in Dio. Altri ancora, in carcere si sono convertiti. Ricordo un albanese che ha ricevuto lì il battesimo: ha dimostrato in modo straordinario la sua fede. Con Dio, le persone si trasformano per sempre.
Giulia Busetto