Piccolo e bello è possibile: lo attesta l’enclave di successo dell’agricoltura italiana. Parliamo degli agricoltori della val di Non e della val di Sole, in Trentino. Riescono a garantire efficacia e redditività al modello della piccolissima azienda e della distribuzione diffusa della proprietà e del reddito. Mica poco. Il segreto è il consorzio, che proprio quest’anno compie vent’anni.
Lo si è potuto ben vedere a Pomaria, l’edizione appena conclusasi, domenica 14 a Cles, della festa della mela. Visitatori a frotte, vendite consistenti di mele e loro derivati, molta attenzione al comparto.
I numeri di questo successo persistente lo confermano: sono 7mila gli ettari coltivati a meleto nelle due valli; e sono 4mila le aziende, pressoché tutte a conduzione familiare. Il che significa che la superficie media per azienda è inferiore ai due ettari: un microbo rispetto alla taglia che, in generale, rende sostenibile quest’attività dal punto di vista economico. E mentre altrove le piccole aziende vengono vendute e aggregate, qui persiste la piccolissima taglia.
Ma il fatto di conferire tutti il proprio raccolto ad un solo soggetto, il consorzio Melinda, rende possibile il “miracolo”. Perché il consorzio fa tutto quel che serve dopo aver staccato il pomo dall’albero: stoccaggio, frigo-conservazione, selezione, confezionamento, spedizione, promozione, vendita, amministrazione…
Così la famiglia proprietaria del frutteto può contare su un reddito significativo, che per molti è il complemento “di sicurezza” ad un altro reddito.
Un esempio con qualche cifra? Eccolo: un terreno di due ettari (quattro campi da calcio) produce mediamente 1000 quintali di mele all’anno. Se si è stati bravi e laboriosi (e quasi tutti, in queste valli, lo sono), i frutti vengono venduti ad un prezzo che si aggira sui 50 centesimi al chilo. Tolti però i costi di produzione, che si aggirano sui 30 centesimi al chilo, i venti cent rimanenti rappresentano il guadagno. Moltiplicato per 1000 quintali, fa 20mila euro. All’anno. Tutto ciò a patto che la conduzione sia diretta e non si abbiano né dipendenti né collaboratori: la persona pagata 7 euro (10 con i contributi) all’ora per la raccolta fa sì che il costo per l’azienda aumenti di 10 centesimi al chilo.
Ma anche facendo da soli, il guadagno probabilmente non basta per sostentare una famiglia per un anno intero; così molti, in queste due valli trentine, accompagnano alle entrate da frutteto quelle di altri mestieri e occupazioni.
Tutto ciò, però, conservando la tradizione contadina e garantendo una sobria ed equa ripartizione della ricchezza.
Tutto bello? In realtà qualche “nemico” all’orizzonte c’è. Non riguarda il modello economico, ma i vari segmenti del processo di produzione e commercializzazione delle mele. Bisogna resistere alle tentazioni dei grandi compratori – specie le catene della grande distribuzione straniera, in primis quella anglosassone – che vorrebbero mele tutte uguali, tutte perfette, tutte lucide, senza una macchiolina… «Farle in fabbrica – commenta un agricoltore trentino – sarebbe la soluzione».
E bisogna sostenere la richiesta della grande distribuzione nostrana, meno esagerata, ma comunque desiderosa di un prodotto standard. «Non per niente – prosegue il produttore – in questi ultimi 15-20 anni abbiamo standardizzato altezze e distanze delle piante, così da avere un prodotto omogeneo e di qualità medio-alta».
Per finire con i nemici piccolini ma temibilissimi: «Fino ad ora ne siamo rimasti immuni, ma nella bassa val di Non comincia a farsi vedere la cimice asiatica. Considerando quale pestilenza è per i colleghi che hanno coltivazioni in pianura, dovremo attrezzarci presto per controbattere».
Giorgio Malavasi