«Siamo incinte». La frase è detta da una donna ad un’altra donna – non importa ora il loro nome o se siano famose calciatrici di livello internazionale – con la quale forma una coppia lesbica. Quindi “in realtà” solo una di loro è incinta, quella che ha detto «siamo incinte», affermandolo al plurale per coinvolgere l’altra, la compagna, attraverso una “finzione linguistica”, in un’esperienza, quella della gravidanza, che la vedeva “di fatto” esclusa. Ciascuna di loro poi chiama l’altra “mia moglie” e non importa a loro raccontare come viene concepito un bambino tra due donne, ma solo dire che da tempo avevano «deciso di iniziare a provare ad avere un bambino» e per questo si sono rivolte ad una clinica privata in Svezia, loro paese d’origine. Non sfugge però che il vocabolario di queste frasi rimanda (volutamente e di nuovo in una “finzione linguistica”) alla modalità ordinaria con cui un uomo e una donna decidono di avere un figlio e poi “provano” a generarlo attraverso atti sessuali.
Ma c’è di più: da settimane molto probabilmente le due donne non si incontrano perché una vive e lavora in Italia e l’altra in Svezia; per cui è quest’ultima che telefona all’altra per dirle che il test di gravidanza è positivo: “siamo incinte”. La distanza temporale e spaziale mette alla prova la nostra capacità di situare il concepimento, che si percepisce “di solito” in una vicinanza spazio-temporale.
Storie di cavoli e di cicogne
Da quanto detto sin qui emerge una certa narrazione sulla gravidanza e sulla nascita, che media il suo contenuto. Ma un conto è raccontare ai bambini che i neonati nascono sotto i cavoli o li portano le cicogne, come atteggiamento di rispetto sulle conoscenze appropriate alla loro età, un altro conto è raccontare a degli adulti certe “nuove storie” di maternità con un linguaggio che si vuole rendere “socialmente” rispettabile (se non un giorno addirittura obbligatorio per tutti). Così come siamo già abbastanza grandi per continuare a credere ai cavoli e alle cicogne, allo stesso modo non possiamo accettare senza qualche obiezione l’uso del plurale “siamo incinte” e del doppio “mia moglie”. Non contestiamo che il bambino concepito (dalla clinica, attraverso tecniche di procreazione medicalmente assistita, con donatore di sperma) abbia diritto, fin dal concepimento, al rispetto della propria dignità pienamente umana e ad essere percepito come una benedizione di Dio. Ma affermiamo che proprio la “modalità” con cui è stato concepito e il ricorso a questo “nuovo linguaggio” (fittizio) per descriverlo – ad opera di sua madre e della compagna di sua madre (a meno che una non sia la madre biologica riguardo all’ovulo e l’altra la gestante) – possono danneggiare la dignità di persona umana del bambino; perché ogni bambino avrebbe diritto sia ad essere concepito nella pienezza del significato della donazione reciproca di amore nell’atto coniugale sessuale tra un uomo e una donna, sia a conoscere la verità sul generare pienamente umano, quando ne avrà l’età, e non una finzione costruita a parole che di fatto lo inganna sulla sua vera filiazione.
Difendere la realtà: “le foglie sono verdi in estate”
Le coppie LGBT possono chiedere che siano rispettate le loro scelte affettive e che non siano discriminate in “certi” diritti (anche se non possono pretendere quelli che non competono loro). Ma avrebbero anche il dovere corrispettivo di una narrazione autentica sulle implicazioni delle loro scelte, senza ricorrere a “finzioni linguistiche”. Il rischio maggiore, poi, è se dovesse arrivare a breve un giorno in cui queste finzioni verranno imposte come “la verità” (di Stato? della “dittatura del relativismo”? della “colonizzazione ideologica”?) e se coloro che difenderanno la realtà lo faranno a rischio della loro buona reputazione e della libertà di espressione, come lasciano presagire alcune proposte di legge presentate in diversi Parlamenti nel mondo.
A questo proposito viene in mente ciò che scriveva G. K. Chesterton nel 1905 in Eretici, quando presagiva il tempo in cui si sarebbe dovuto difendere con il fuoco e la spada il fatto che «due più due fa quattro» e che «le foglie sono verdi in estate». In quei giorni però io preferirò (e spero insieme a me molti altri) rivendicare il diritto di dire la verità e di difendere la realtà: non con il fuoco e la spada in pugno ma facendo leva sulla “non violenza” e accettando, se fosse il caso, un nuovo genere di “martirio” che sarà inflitto attraverso il fuoco dell’ideologia e la spada della finzione, quando si “ucciderà” con la gogna mediatica o con una pena economica o con anni di reclusione, se non andando oltre.
Ma anche allora non si tratterà di voler essere degli eroi eccezionali nel difendere ideali straordinari, ma solo difensori della “realtà” con il suo significato proprio, come semplici realisti ordinari, quotidiani, che sanno che “una” donna è incinta (e non due) e che sanno che alla moglie dovrebbe corrispondere “un” marito. Lo sanno e lo dicono.
Ermanno Barucco
Gremio di Bioetica