Piccola, cristiana e in cerca d’affetto. Per mesi ha rinunciato alla sua lingua, alla croce che portava al collo e agli spaghetti alla carbonara che la ingolosiscono tanto. I servizi sociali londinesi avevano affidato la bambina inglese di 5 anni a due famiglie musulmane del posto.
Un’inchiesta del Times che ha fatto il giro del mondo e ha costretto il Paese, con una decisione presa da un giudice (anch’egli musulmano osservante), a rivedere la scelta fatta dai servizi sociali. Ora la bimba è con la nonna: il magistrato ha esplicitato come nell’affido vadano tutelate origini culturali, linguistiche e religiose del minore.
Un lieto fine, che mostra però le screpolature di un modello positivo d’integrazione che, se spinto alla massima velocità, scricchiola. E traballa proprio quando il multiculturalismo diventa pretesto, base di lancio, tavolo di laboratorio per esperimenti culturali estremi che del vecchio sogno del melting pot, una società ideale capace di arricchirsi della provenienza di ogni suo nuovo componente, non c’entrano un bel niente.
Di grande cosa è capace la società inglese quando fa dello straniero un interlocutore pubblico essenziale, permettendogli di pregare, indossare simboli religiosi e predicare per le strade. Altra cosa, però, è trasformare questo modello in un frullatore di etnie che rischiano di perdere la propria identità. Tutto fatto nel nome di un relativismo culturale che ha poco a che fare con il senso vero della convivenza tra fratelli.
Giulia Busetto