Non è facile, a caldo, analizzare e interpretare il recente Referendum sull’autonomia. Sarà opportuno seguire lo svolgimento degli avvenimenti, in modo da poter meglio valutare; quel che si può notare da subito è il dato, piuttosto impressionante, concernente la partecipazione, dato che, nel Veneto, è stato particolarmente significativo ed elevato.
Inutile, mi sembra, negare questo dato, e la maggioranza che si è espressa, o anche minimizzarlo. Occorre invece concentrare l’attenzione sull’onda di consensi che è venuta a coagularsi attorno a una domanda, forte e insistente, di autonomia; nella richiesta, sia pur indeterminata, di una più ampia autonomia, confluiscono le critiche agli sperperi e agli sprechi, realissimi ma amplificati talora per ragioni propagandistiche, e le richieste di essere messi alla prova, di far da sé, secondo gli imperativi di una tradizionale laboriosità; la mentalità dei Veneti, pur modificata in parte dalla modernizzazione, ha avuto il suo peso in un orientamento così massiccio, come si può evidenziare anche dal risultato, piuttosto difforme, che si è registrato in Lombardia.
Un autentico federalista non può che prender atto, con una certa soddisfazione, dell’affermarsi di questa sete di autonomia, che ha coinvolto anche la mente e il cuore di molti cattolici; è stato notato che la rivendicazione delle “piccole patrie”, in un’epoca di trionfo dei grandi Imperi, contiene qualcosa di anacronistico, ma tali annotazioni non colgono il punto decisivo: proprio la globalizzazione, che pare trascinare con sé ogni radicamento e confine, esige, come in un drammatico contraccolpo, la coltivazione dei localismi, la valorizzazione delle particolarità etniche, linguistiche e religiose; è stato sottolineato come, nel cuore dell’Europa, siano una ventina le comunità che reclamano una maggiore autonomia, se non l’indipendenza dai rispettivi Stati nazionali, grandi contenitori evidentemente in crisi.
Eppure, la soddisfazione che indicavo sopra è solo un aspetto di una questione assai più complessa. Innanzitutto, un federalismo integrale dovrebbe essere più politico che economico, come un’intera tradizione, da Proudhon a De Rougemont e comprendendo il “nostro” Cattaneo, non cessa di suggerirci.
Da un punto di vista cristiano, il federalismo dovrebbe caratterizzarsi come solidale, non risultato dunque di una contrazione egoistica, ma frutto, al contrario, di un’espansione generosa, capace di contestare, con gli strumenti della cultura e dell’esperienza, il centralismo e il burocratismo dello Stato tradizionale. Il dubbio è che molti abbiano subìto il richiamo impulsivo di un intravisto vantaggio economico e fiscale, senza interrogarsi sugli equilibri necessari all’interno di una Nazione ben coesa, dimenticando i tanti focolai di miseria e precarietà presenti in altre parti d’Italia. Comunque, la situazione è in bilico, e nessun mutamento serio può attuarsi se non partendo da una vibrante scossa iniziale, che c’è stata. Ora, con l’occasione dell’autonomia, scocca anche il momento della responsabilità; la lamentazione: “Saremmo generosi, se avessimo i mezzi”, rischia di non esser più una giustificazione persuasiva; se si hanno in casa più mezzi, conquistati magari con una difficile trattativa, riaffiora, in maniera ineludibile, l’impegno ad essere aperti e generosi, nelle grandi questioni sociali che travagliano l’Italia e l’Europa.
Giuseppe Goisis
Gruppo docenti universitari cattolici del Patriarcato di Venezia