Sulla violenza che, nel giorno di Pasqua, ha colpito fedeli cristiani e turisti in Sri Lanka sono state scritte molte parole e molte voci si sono levate. Nelle prime ore di martedì 23 aprile, l’Isis ha rivendicato – attraverso la piattaforma di propaganda Amaq – la serie di attentati che ha provocato la morte di circa 320 persone e il ferimento di più di 500. Politici e cronisti non hanno tardato a commentare l’accaduto con varie sfumature di orrore e condanna. Com’è costume, almeno di recente, all’orrore e alla condanna si è associata una buona dose di aggressività.
È certamente condivisibile l’appunto di chi denuncia il silenzio sotto cui vengono fatte passare altre centinaia di attentati che, un giorno dopo l’altro, colpiscono i cristiani nel mondo: a ben vedere, è un tema a cui la comunità cristiana veneziana di è mostrata sensibile, già nel novembre 2018, quando Venezia si è tinta di rosso per Asia Bibi e tutti i cristiani perseguitati nel mondo. D’altro canto, è innegabile che un attentato consumatosi nel giorno di Pasqua – e con tale impatto – attiri maggiormente l’attenzione non solo dei media, ma anche di chi ad essi ricorre per informarsi e – legittimamente – dare forma alla propria visione del mondo.
Si potrebbe dire che dinanzi ad un simile, tragico accadimento sia più semplice riunirsi: quando la violenza scandisce con tanta forza la fragilità dell’esistenza umana, si reagisce con un certo sentimento di unità. Occorre però essere vigili affinché questo riunirsi, da una legittima levata di scudi, non diventi un attruppamento.
La violenza e la morte che ne consegue sono esperienze liminali: ci conducono al limite della nostra vita, lì dove il senso sembra sfumare e le coordinate fondamentali rischiano di essere smarrite. Come Cristiani, però, non possiamo ignorare che il Vangelo di Cristo risuona della voce di chi ha vinto il corpo a corpo con la morte. La forza della Risurrezione dà una fisionomia precisa al nostro credo: non a caso, il testo del Simbolo niceno-costantinopolitano – documento imprescindibile della nostra fede – riferisce della Risurrezione del terzo giorno e, subito dopo, della nuova venuta di Cristo «nella gloria, per giudicare i vivi e i morti». È l’esperienza della Pasqua – della Risurrezione – che manifesta il diritto del Risorto di giudicare tanto i vivi, quanto i morti: è la vita nuova in Cristo che può decifrare il senso dell’esistenza, tanto còlta nel suo svolgersi, quanto nel momento della sua fine.
Per noi, oggi, tenere fede al Vangelo di Cristo significa sforzarci di demistificare la violenza e la morte, ricordandoci che il sentimento d’unità da cui veniamo raggiunti dopo eventi simili, dev’essere declinato in funzione della vita e della sua promozione. Il sangue dei martiri cristiani – come ricorda Agostino nella Epistola 134 –, non chiede di essere lavato con altro sangue: la vita di ogni martire è stata riscattata dalla venuta di Cristo.
L’invito che, come studenti della Pastorale Universitaria, rivolgiamo anzitutto a noi stessi è a non lasciarci mettere all’angolo da accadimenti come questi, rispondendo con ogni sforzo possibile per promuovere pratiche di vita, di fraterna accoglienza e carità cristiana. Cose che – si badi bene – sono assai più forti di ogni chiusura, di ogni risposta violenta, poiché è nutrita dallo Spirito Santo, che discende su di noi ogni volta che abbiamo la lucidità di dire sì al Dio della vita e no alla tentazione della sopraffazione e della morte.
Studentesse e studenti della Pastorale Universitaria di Venezia