Una combinazione potenzialmente esplosiva: da una parte la questione delle moschee, dall’altra la cellula jihadista sgominata il 30 marzo scorso mentre progettava un attentato al ponte di Rialto.
Che in Veneto ci siano da tempo problemi con i luoghi di preghiera islamici non è una novità. La legge regionale approvata nell’aprile del 2016, e subito ribattezzata “legge anti-moschee”, si proponeva di mettere ordine nella situazione esistente, ma di fatto ha adottato dei parametri così restrittivi da rendere molto difficile l’edificazione di nuovi luoghi di culto, oltretutto facendo proprio un criterio, quello urbanistico che, come ha ricordato il Patriarca, non può essere l’unico per valutare le “attrezzature religiose”. Di recente la Corte Costituzionale ha dichiarato legittimo il provvedimento, con l’esclusione della norma che imponeva i sermoni in italiano.
È legge; non è però una buona legge, soprattutto se sarà applicata in modo restrittivo. D’altra parte il modo in cui la comunità che si ritrova a pregare in Via Fogazzaro ha affrontato l’improvvisa notorietà in cui si è trovata catapultata non è stato dei migliori. Le luci si sono accese perché uno dei jihadisti kosovari avrebbe frequentato, secondo gli inquirenti, questa moschea. Ora, invece di spendere ogni energia per cercare di dimostrare la propria estraneità ai fatti, i responsabili hanno invocato il consueto mantra (“non possiamo conoscere tutti quelli che vengono a pregare in moschea”) e hanno scelto di alzare i toni del confronto.
Pensiamo un attimo a una scena a parti invertite: un commando di giovani italiani, che si richiama a un’interpretazione distorta del Cristianesimo, pianifica un attentato in un luogo simbolo di Dacca, Bangladesh. Nelle intercettazioni progetta anche di attaccare la grande moschea della città e di come sia encomiabile versare il sangue dei musulmani. Emerge dalle indagini che uno dei potenziali terroristi ha frequentato saltuariamente una chiesa locale. Non sarebbe logico aspettarsi che i responsabili della chiesa in questione corrano a dimostrare la loro estraneità? Come la prenderebbero i locali se per tutta risposta parlassero di occupare la piazza principale della città? Sono esercizi utili e nel mondo arabo ci si è cimentata la giornalista saudita Nadine al-Budayr. Un suo articolo comparso sul quotidiano kuwaitiano al-Ray nel dicembre 2015 iniziava così: «Immaginate che un ragazzo occidentale venga qui per compiere una missione suicida nel nome della Croce, in una delle nostre piazze…». Fortunatamente negli ultimi giorni i toni si sono smorzati.
Ora il sindaco dichiara che sarà aperta una moschea in periferia (nelle famose zone F previste dalla legge regionale). Non si andrà a un confronto, ed è un bene. Ma questa storia ha due lezioni da insegnare.
Una agli amministratori pubblici: devono prevedere degli spazi di preghiera degni e ufficiali per i musulmani, perché la semi-clandestinità non aiuta.
Una per le comunità musulmane: alzare i toni nuoce e serve chiarezza, soprattutto se si parla di un argomento così sensibile come il jihadismo. Vorrà pur dire qualcosa se in tutto il mondo islamico non si parla d’altro che della necessità di un rinnovamento del discorso religioso.
Martino Diez * Fondazione Internazionale Oasis