Lui è in jeans e tatuato, lei ha un vestito bianco, una collana di perline e un copricapo di fiori. Le loro immagini sono accompagnate da frasi tipo “Gesù, che pantaloni!”, “Cara Maria, che vestito!” e “Gesù e Maria, cosa indossate!”.
Sono le pubblicità usate da un’azienda della Lituania, considerate offensive per la morale pubblica da un giudice lituano e ora, invece, per via di una sentenza appena emessa dalla Corte europea dei diritti umani, dichiarate legittime. Ci sono almeno due punti molto fragili, a nostro sommesso parere, nella sentenza della Corte europea.
Questa, infatti, critica le autorità lituane per aver giudicato che le pubblicità “promuovono uno stile di vita incompatibile con i principi di una persona religiosa” senza spiegare quale sia lo stile di vita incoraggiato. Ma c’è bisogno di spiegare ai giudici europei che usare il Vangelo per accrescere il profitto di un’azienda è contrario allo stile di vita di chi in quell’Annuncio crede?
La Corte di Strasburgo, inoltre, ritiene che “la libertà di espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica e una delle condizioni di base per il suo progresso e per l’autorealizzazione individuale di ciascuna persona”. La libertà, però, è tale se riconosce dei “paletti”. Uno di questi, sacrosanto, è il rispetto della sensibilità e del credo altrui. La creatività si può esercitare sull’evento cristiano. Ma non ha il diritto di snaturarlo o di strumentalizzarlo.