Se qualcuno pensa che esista un Paese al sicuro dal rischio della pandemia deve ricredersi: il contagio non risparmia nessun continente o isola.
Ne sanno qualcosa i due seminaristi diaconi di Venezia partiti per Ol Moran, in Kenya, il 12 febbraio e rientrati domenica scorsa, con circa un mese di anticipo sul programma. Un epilogo obbligato per don Augusto Prinsen, 32 anni, di S. Maria del Monte (Varese), e don Daniele Cagnati, 32 anni, di Jesolo. L’esperienza era praticamente conclusa. «Il 25 marzo ci è stato comunicato che saremmo partiti due giorni dopo», spiegano. Ma la situazione stava precipitando ormai da qualche giorno. Un morto e 46 positivi, ufficialmente. E soprattutto una domanda: il Kenya può gestire un’emergenza così grave con le poche risorse sanitarie di cui dispone? E un altro problema: nelle città, se viene a mancare il cibo, possono scoppiare disordini. Il governo ha imposto il coprifuoco dalle 7 di sera alla mattina. Le scuole sono state chiuse e tutte le celebrazioni pubbliche sospese. Anche nella parrocchia di Ol Moran, dove opera il veneziano don Giacomo Basso: l’ultima messa aperta ai fedeli è stata celebrata due domeniche fa.
Dunque, una presenza interrotta bruscamente, ma non priva di costrutto.
Era partita con delle aspettative. «Il Kenya è un po’ l’Africa come me la immaginavo – racconta Augusto –, ma più verde di quanto pensassi. Mi ero fatto un’idea dai racconti di altri seminaristi che ci sono stati. Ma solo lì ho capito quanto don Giacomo stia investendo sull’educazione e la scuola. È bello che tutta la nostra diocesi sostenga questa missione. In cui spicca il lavoro prezioso di tanti laici del posto».
Le aspettative di Daniele nascevano invece da una sua precedente esperienza. «Sei anni fa ero stato circa un mese in Mozambico. Stavolta sono partito meno entusiasta, perché non avevo scelto io di venire qui e avevo in mente ancora tante cose da fare a casa in vista dell’ordinazione sacerdotale di giugno. Poi mi sono ricreduto e ora sono dispiaciuto di essere venuto via anzitempo. Ma non c’era altra scelta…».
Il viaggio in Africa aveva un obiettivo: sentirsi parte di una Chiesa più grande dei confini nazionali. «Ovunque tu vada – osserva Augusto, con l’aria di averci ben riflettuto sopra –, in una chiesa cattolica puoi sempre dire: “Qui sono a casa”. Il Signore, la fede, il vangelo sono gli stessi. Cambiano solo i modi di organizzare la vita comunitaria. Lì, ad esempio, abbiamo visto come i laici non si perdono d’animo e suppliscono alla grande all’assenza di sacerdoti. Il coronavirus in Europa dovrebbe promuovere un simile senso di responsabilità: non essere un alibi per mancare ai nostri doveri di cristiani, ma spingerci a fare ciò che è nelle nostre possibilità».
Daniele si sofferma invece sulla liturgia: «Una liturgia diversa, un modo di pregare molto fruttuoso: il canto delle suore alle messe della mattina… soprattutto la partecipazione accurata di tanta gente. Pregano con tutto il corpo. E il canto è ben preparato, animato e convinto».
Tutti e due ricordano in particolare un incontro: «Durante una visita ai malati, con le suore, abbiamo conosciuto una giovane che era stata abbandonata dal marito, con due figli, uno disabile, e che è stata abusata. Le suore le hanno trovato una casa e la stanno aiutando».
Augusto poi aggiunge ancora: «Un leader di comunità che era stato derubato del bestiame ha assicurato di non avere desiderio di vendetta: “Se reagissimo peggioreremmo le cose. Noi confidiamo in Dio”. Ecco, mi colpiscono questa grande fede. E il rispetto che hanno per i sacerdoti».
E Daniele: «Siamo stati a benedire la casa di un altro leader: classica casa di fango… eppure ci ha detto: “Mia moglie si occupa dei poveri della parrocchia”, come se loro se la passassero bene… Vivono nel bisogno e si danno da fare per chi ha ancora più bisogno».
Tanti flash zampillano dalla sua memoria: i bambini della scuola parrocchiale che, terminata la ricreazione, rientrano in classe di corsa; le famiglie che non vedono l’ora di far benedire ogni angolo e pertinenza della casa assieme al bestiame. E le spettacolari stellate.
Venire in un Paese straniero in punta di piedi, da ospiti. Ma forse lasciando anche qualcosa… «Sì, quello che non viene da me… Sono stato lì come diacono. Spero di avere lasciato tracce del passaggio del Signore Gesù», si augura Augusto. «Ho regalato alcuni vestiti… Ma soprattutto – ci pensa su Daniele – ho cercato di lasciare un segno di vicinanza alle persone che vivono in condizioni di sofferenza. In particolare, ricordo la comunione portata ai malati di un ospedale nato per iniziativa di un prete missionario di Padova, che ci ha ospitato tre giorni. Non parlavamo la lingua, ma potevamo stringere la mano, regalare un sorriso, dare la comunione e una benedizione».
Giovanni Carnio