Nella locandina del suo monologo teatrale c’è proprio suo figlio, il più piccolo, a vestire i panni di Gesù bambino. A scalpellare il legno invece c’è lui, Pietro Sarubbi, l’attore di fama internazionale, noto ai più per l’indimenticabile interpretazione di Barabba nel The Passion di Mel Gibson, che gli è valsa la conversione al cattolicesimo.
Domenica 5 pomeriggio, dalle 14.30, sarà a Mestre, nella parrocchia del Sacro Cuore di via Aleardi, per regalare alla Festa diocesana della famiglia gli ultimi istanti di vita di “Giuseppe il misericordioso”. Un testo scritto da lui, che da due anni riempie i teatri italiani a suon di repliche.
A partire dal suo monologo ci sarà poi un tempo di dialogo con l’attore e a seguire, dopo una breve pausa, alle ore 17.30 – sempre nella chiesa del Sacro Cuore di Mestre – si terrà la S. Messa domenicale presieduta dal Patriarca Francesco che sarà presente all’intero pomeriggio. Sono particolarmente invitati alla Festa gli sposi e le famiglie della Diocesi (in particolare gli sposi “novelli” che stanno vivendo i primi anni del loro matrimonio), tutti i partecipanti ai corsi di preparazione al matrimonio ed anche, per quanto possibile, i sacerdoti. Bambini e ragazzi presenti potranno seguire lo spettacolo teatrale con i genitori oppure essere affidati ad un gruppo di educatori che cureranno la loro animazione fino all’inizio dell’Eucaristia conclusiva.
Nella locandina c’è la precisa riproposizione della tela di Gerrit van Honthorst, “Il bambino Gesù nella bottega di San Giuseppe” che illumina con una candela il lavoro del padre. «È quella luce che va seguita – racchiude così il senso della sua pièce Sarubbi, che negli anni è stato diretto da registi del calibro di Franco Zeffirelli, Gabriele Salvatores, Dino Risi e John Madden -, questa luce rappresenta il cammino, la direzione, la modalità. Ci dice: Non sai che fare? Sei angosciato per la tua vita? Ti dico io da che parte andare». In scena, invece, Pietro recita con i veri attrezzi del nonno. «Era un falegname anche lui».
Classe 1961, milanese, cinque figli, comico, scrittore, conduttore e maestro di recitazione. In oltre tre decenni di carriera ha lavorato al fianco di Nicolas Cage, Penelope Cruz e Burt Lancaster. Ma quando la fiamma della recitazione ha lasciato spazio a quella di Gesù Cristo «è cambiato tutto, anche in famiglia».
Ha detto che dopo la conversione la sua miseria umana si è trovata a fare i conti proprio, tra le altre cose, con le difficoltà dell’essere padre, com’è cambiato il suo rapporto con i figli?
È cambiato soprattutto dopo i fallimenti. Non ti è risparmiato nulla. Non è che se hai la fortuna di averne cinque, o di avvicinarti alla fede, sei vaccinato dai possibili errori che puoi fare come padre. I figli adolescenti, ad esempio, hanno le loro necessità, le loro azioni, le loro opposizioni. Ed è questa la sfida. Con la fede è cambiato il mio approccio. Sono un padre più forte. Forse perché so che alla fine non dipende tutto da me, che anche nelle cose negative che accadono con i figli c’è sempre qualcosa di positivo. Il lavoro sta nel capire cosa sta accadendo di buono e di trarne insegnamento.
E come vivono loro la sua notorietà?
A volte con imbarazzo. Capita gli chiedano: «Sei il figlio di Barabba?». E loro rispondono: «No no, sono figlio di un idraulico». Dicono che li faccio tribolare.
Quale pensa sia il ruolo del padre cristiano anche all’esterno della famiglia? Si è padri in tanti modi, lei ha molti allievi alla scuola di recitazione “Luchino Visconti” di Milano…
È vero, anche con loro si esprime una grossa paternità. Mi piace che i ragazzi la riconoscano fortemente. È una cosa bellissima che la fede mi aiuta ad alimentare. Anche impegnativa, perché devi essere presente e intenso, senza diventare pietoso o pietistico. È uno degli aspetti per cui vale davvero la pena insegnare.
E per questo personaggio, San Giuseppe, lei deve attingere a tutto il bagaglio paterno che conosce. A chi si ispira mentre veste i suoi panni?
A una somma di persone della mia famiglia. Il nonno che era veramente falegname. Mio padre che era legatissimo a lui. Io che sono legatissimo a mio padre. E quindi in mezzo a quelle pialle è come se ci fosse un fil rouge. E poi per scovare dei comportamenti antichi bisogna andare un po’ indietro nel tempo. Quando c’era sensibilità, tenerezza e rispetto per i clienti, per il materiale, per il lavoro.
Un’occasione, come dice lei, per far raccontare la storia più bella del mondo dal suo diretto testimone, un semplice falegname che si trova davanti al mistero più grande: l’Annunciazione.
Ho scelto la forma del monologo perché una storia così non si può interrompere. La sacralità di San Giuseppe non si può disturbare. Lui, uomo riservato e taciturno, si ritrova anziano e febbricitante, in preda a questa vigoria che precede la morte, a questa febbre che rende vive esperienze ed emozioni. Ha vissuto all’interno di un accadimento non facile. Era un uomo normale con una vita normale. Uno tranquillo, amante del lavoro e della preghiera. Ma a un certo punto, dentro la sua vita, piomba la volontà divina. È qui che cerco di raccontare quello che gli accade.
Cosa la colpisce di più del padre Giuseppe?
Maria era santa già da bambina. Ha una santità evidente. Per me è affascinante che Giuseppe, invece, coltivi questa santità partendo da una concreta umanità. Questo lo rende santissimo. Lui era composto di santità: carne, lavoro, preghiere, preoccupazioni. In lui c’è tutto un cammino di cambiamento, conversione. Non che prima non fosse religioso, ma da religioso a mistico la strada è stata importante. Una conversione intesa, intesa come l’andare verso una nuova direzione. Questo lo porta a fare i conti con il fatto di avere un figlio speciale. Ed essendo lui un uomo normale, ha vissuto la semplicità di questa eccezionalità.
Come lo è la sua rappresentazione… intima e delicata, priva di fronzoli…
Sì. La Sacra Famiglia è nata e vissuta priva di orpelli. Forse a volte ci si confonde vedendo tanti quadri, gioielli, chiese. Si fa confusione con quello che veramente era l’origine. Persone che, come tutti noi, facevano colazione, pranzavano, cenavano, forse avevano problemi con i vicini. È dentro la normalità che si amplifica la santità.
Giulia Busetto