«La vita terrena è un assaggio, un’antifona. Abbiamo tutti di fronte la vita eterna, ma la vita eterna dipende dal tempo breve o lungo della nostra vita terrena. E la nostra vita terrena dipende, dal punto di vista cristiano, dalla capacità che abbiamo di superare il nostro io, la nostra autoreferenzialità».
Usa queste parole, il Patriarca Francesco, nell’omelia pronunciata mercoledì 1° novembre, nel pomeriggio, durante la Messa celebrata nel cimitero di Mestre.
L’occasione – la solennità di Tutti i Santi e il luogo, il cimitero, alla vigilia della commemorazione di tutti i defunti – è propizia per unire una riflessione sulla santità ad un pensiero sulla vita e sulla morte.
«E così – sottolinea mons. Moraglia la liturgia diventa davvero vita e quello che dice me lo porto fuori dal sagrato, in famiglia, nell’ambiente in cui lavoro… Perché il Vangelo si annunzia vivendolo, non costruendo strutture, ma esprimendo la nostra fede».
Che cos’è la santità?, domanda il Patriarca, che accanto a sé ha, tra gli altri, il Vicario per la pastorale, don Danilo Barlese, il parroco di Carpenedo, don Gianni Antoniazzi, e don Armando Trevisiol. La santità è credere e fare ciò che dice la grande pagina evangelica delle beatitudini. Il Patriarca esemplifica: «Beati gli afflitti, dice il Vangelo. E tutti noi abbiamo momenti di afflizione, persone che ci affliggono, momenti in cui rimaniamo delusi dalle persone, nelle nostre aspettative… E in quei momenti dobbiamo credere che il Signore ci sta dicendo qualcosa: fai attenzione, non puoi pretendere di essere felice in questo mondo… Chi pretende di essere felice, chi persegue la felicità, chi vuole la felicità, anche quando ha motivi veri per essere felice, non lo è. Perché deve sempre inseguire qualcosa».
Allora la santità, continua il vescovo di Venezia nell’omelia, «è prima di tutto vibrare in sintonia con il Vangelo, ascoltare il Vangelo, lasciare che la Parola di Gesù ci giudichi e tirarne le conseguenze».
E citando il santo della santità monastica, San Benedetto: «Benedetto dice che un uomo non può essere guida per altri uomini fintantoché è una persona che guarda a se stesso. Fintantoché è un egocentrico, un autoreferenziale. Un uomo che pensa a sé e giudica tutto non può essere d’esempio e guida per altri uomini che cercano la santità. E allora l’indicazione del santo padre del monachesimo occidentale è: mettere in crisi il proprio io. Se noi entriamo in un dialogo, in un confronto, siamo meno sicuri di noi stessi e meno certi dei nostri giudizi, allora siamo nell’atteggiamento di chi si converte. Vale anche per noi preti, che partecipiamo dei difetti di tutti gli uomini e poi abbiamo anche quelli dei preti. A volte chiediamo la conversione agli altri, ma non siamo capaci di convertire realmente il nostro io. Perciò San Benedetto ci chiede di rientrare nel nostro io e di ripensare la nostra vita di fronte all’io di Dio».