«Una salita in montagna». Così Matteo Gabrieli definisce il suo percorso di vita e di fede: un sentiero talvolta ripido, faticoso, ma che ora sta per giungere alla vetta, al compimento rappresentato dall’ordinazione sacerdotale di sabato 24 giugno in San Marco per le mani del Patriarca Francesco Moraglia insieme a Lorenzo Manzoni. «Andare in montagna – spiega intervistato da GV – è un po’ metafora della vita: se vuoi vedere un bel posto, se vuoi avere uno sguardo a 360 gradi, devi fare fatica».
È per questo che Matteo, 34 anni, nato a Padova da famiglia veneziana, subito dopo l’ordinazione ha già in mente una “cosa” da fare: «Intendo raggiungere una vetta e celebrare la Messa davanti alla croce. Lo zaino con tutto il necessario è praticamente pronto. Il mio desiderio è quello di raggiungere con l’aiuto di una guida la cima dell’Antelao. E’ la montagna che fa da sfondo alla casa di San Vito, luogo che per noi seminaristi rappresenta il punto di svolta: è là, durante le nostre vacanze estive, che scegliamo se continuare e come continuare».
Prima di quella scelta, ci sono stati altri momenti decisivi. Quando hai avvertito il desiderio di diventare sacerdote?
La mia vocazione è nata fin dall’infanzia che ho trascorso a Scorzè dove la mia famiglia, originaria del centro storico di Venezia, si era trasferita. Sono stato educato alla fede e ho imparato a conoscere Gesù nella parrocchia di quel paese. Tanto è vero che ho scelto di celebrare la mia prima Messa nella parrocchia dove sono stato battezzato e dove ho iniziato a vivere la mia fede. Ero bambino, frequentavo il gruppo che si preparava alla Prima Comunione e facevo il chierichetto: grazie all’esempio dei sacerdoti e dei catechisti ho iniziato a sentire il germe della vocazione.
In che modo?
Quel che mi colpiva era soprattutto la bellezza. Il luogo, la liturgia molto curata, il canto: tutto questo mi faceva intuire che c’era qualcosa che andava oltre la bellezza esteriore, ma era la bellezza con la “B” maiuscola. Dal mio sentire di bambino, ho iniziato ad avvertire che c’era qualcosa per cui valeva la pena impegnare la vita.
Poi sei tornato a Venezia…
A 11 anni è mancata la mamma e siamo tornati a Venezia, vivendo a casa dei nonni. In prima media sono entrato in Seminario: già mio padre e mio zio avevano fatto l’esperienza, che reputo molto bella, del Seminario minore, che ora non c’è più ma che per me è stato molto importante. Ho fatto qui le medie, il ginnasio e il liceo. Una volta diplomato, ero un po’ stanco di studiare e ho voluto provare un’esperienza lavorativa. Doveva essere una breve pausa di riflessione, ma è durata sei anni.
Dove hai lavorato?
Ho lavorato nel settore alberghiero, all’Hotel Gritti, tra i 19 e i 26 anni. All’inizio il lavoro era stato un ripiego, l’avevo trovato mediante una conoscenza. Non stavo cercando quel tipo di occupazione. Forse, anche attraverso una certa insoddisfazione per quel che stavo facendo, sentivo che qualcosa mi mancava, che la mia vita non poteva essere solo quella. Così ho deciso di mettermi in gioco e di ripensarmi in maniera più seria, riprendendo quel discorso della vocazione non più con gli occhi di un bambino ma di una persona quasi adulta. E’ stato un percorso lento, durato sei anni, ma attraverso quel sentire che mi mancava qualcosa il Signore mi è venuto a cercare.
Ritieni che ti sia stata utile quella pausa di riflessione?
Se tornassi indietro probabilmente farei tutto subito, perché un conto è diventare prete a 25 anni un conto a 35. Ho un bagaglio un po’ più pesante da portare, magari non mi ci vedo moltissimo nei Grest, nei campi scuola in tenda… Ma forse non è neanche una questione di età. In ogni caso il mio inizio da sacerdote sarà con la Gmg di Lisbona e c’è una specie di continuità con il mio inizio in Seminario, visto che terminavo la prima Teologia quando sono andato alla Gmg di Cracovia nel 2016.
Cosa porterai con te del Seminario?
L’esperienza del Seminario ti aiuta, oltre a diventare un “esperto della cose di Dio”, anche a modificare l’idea di prete che si ha in testa. Partivo con un’idea un po’ astratta e idealizzata mentre poi in Seminario e nell’esperienza fatta in questi anni in parrocchia ho visto che il sacerdote è veramente uno che si spende 24 ore su 24 per le persone. E una cosa che mi fa dire “hai voluto la bicicletta? ora pedala…” è che le persone le incontri e le intercetti negli orari più strani, soprattutto la sera. Fai fatica, ma capisci che il ministero è per la gente. Magari ti ritrovi alle 11 di sera senza aver ancora pregato, ma – come diceva il mio parroco – anche lo stare fino a tardi accanto a delle persone è una “preghiera gradita a Dio”. Il Seminario serve a metterti a contatto con la vita comunitaria, aiuta a prepararsi all’incontro con gli altri.
Sei stato uno dei seminaristi che più hanno “girato” per la Diocesi, prestando servizio in numerose parrocchie, dal Lido, a Dorsoduro, ma anche Caorle, Jesolo, Gambarare, Mira e Favaro… Che tipo di esperienze sono state per te?
Ho girato moltissime parrocchie e mi sono sempre trovato bene, mi sono sempre sentito accompagnato dal Signore, per cui parto fiducioso. Tra i tanti sacerdoti conosciuti, ho instaurato un bel rapporto di amicizia sacerdotale con don Paolo Bellio. Sarà lui a fare la predica alla mia prima messa.
Quali sono stati i sacerdoti che hanno contribuito alla tua formazione in Seminario?
Devo senz’altro ringraziare don Giacinto Danieli, che ha sempre scommesso su di me. Anche nei sei anni in cui ero distante, lui è sempre stato presente, con un messaggio, una telefonata… Poi i rettori del Seminario, prima don Lucio Cilia e poi don Fabrizio Favaro: soprattutto lui non mi ha mai fatto pesare i miei difetti. Non mi ritengo una persona facile, ho il mio caratterino e quando voglio una cosa quella deve essere. Ma don Fabrizio ha sempre valorizzato i miei difetti per farmi crescere cercando di trasformare in bene quello che magari non andava tanto bene.
Hai delle passioni, o degli hobby?
La musica è una passione che coltivo fin dall’infanzia, fin dalla mia prima esperienza di chiesa. Quando frequentavo il Seminario minore c’erano delle piccole stanze con degli harmonium e così ho potuto imparare a suonare l’organo. Poi mi sono appassionato al canto gregoriano che ho potuto studiare con i padri benedettini di San Giorgio: il canto gregoriano continua ad essere la mia passione e un po’ mi fa soffrire il fatto che sia così trascurato dalle parrocchie. Vorrei fare un lavoro di rieducazione musicale in futuro: ci vuole davvero poco a far capire alle persone dove sono le cose belle.
E poi c’è la montagna, come si diceva all’inizio…
La ritengo un’esperienza educativa per i giovani. Perché per raggiungere la vetta si deve fare fatica. Mi colpisce molto che tanti ragazzi davanti a un sentiero ripido, che richiede fatica, hanno paura, addirittura vanno in crisi di panico. Ma il loro fisico non è impedito, le forze le hanno. Confondono la fatica con la paura di non farcela. Questo è un veicolo di evangelizzazione: far fare l’esperienza del bello, pur con fatica, è una strada straordinaria attraverso la quale annunciare il Vangelo.
Serena Spinazzi Lucchesi