La preghiera e la lotta. Perché la preghiera è lotta. In questo binomio sta lo strumento principe per coltivare e far crescere la vita del credente. A maggior ragione del credente che ha responsabilità dinanzi alla comunità.
Lo sottolinea il Patriarca Francesco nell’omelia della Messa presieduta oggi nella cappella di casa Papa Luciani a Santa Giustina Bellunese. Insieme a lui una quindicina di diaconi veneziani e alcune delle rispettive mogli, impegnati negli esercizi spirituali.
Rileva mons. Moraglia: «Più una persona è pubblica – penso anche ai diaconi nei confronti del loro ministero – e quindi più uno ha responsabilità è più deve lavorare su di sé spiritualmente. Perché è dal nostro rapporto con il Signore che nasce la nostra pastorale e nasce anche il nostro servizio agli altri».
Più si prega il Signore, rimarca ancora mons. Moraglia, «più Lui ci insegna a pregare. Più preghiamo di corsa e meno riusciamo a entrare nella grazia della preghiera. Perciò certi ministeri sarebbero diversi se, all’inizio di ogni giornata, ci fosse un tempo ampio e convinto di preghiera».
L’esperienza della preghiera, insomma, come scelta principale: «Se non cresciamo nella preghiera, se non sentiamo l’esigenza della preghiera, potremo anche anche preparare tutte le riflessioni e tutte le omelie possibili, ma saremo veramente meccanici, non toccheremo le corde delle anime».
E dev’essere un esercizio continuo, quello della preghiera, una manutenzione continua a crescente: «Il rapporto con il Signore lo devono conquistare tutti, sia quelli più dotati spiritualmente o intellettualmente sia quelli meno dotati».
E la dimensione della lotta, anche nella preghiera, non è secondaria ma costitutiva: «Noi abbiamo tolto dalla Sacra Scrittura – sbagliando – tutte le questioni impegnative. Per cui, se non si è felici, si ritiene di aver sbagliato vocazione. Invece, se leggiamo le vite dei santi e dei mistici, quando uno è troppo tranquillo di se stesso vuol dire che non ha mai cercato Dio, o che lo ha cercato trovando prima l’accordo con se stesso. È proprio di certe posizioni laiciste il dire che si è in pace con se stessi. In realtà, quando Dio interviene nella vita di un uomo, lo rende tribolato».
D’altronde, questa è l’essenza del kerygma: «È lo specifico della pienezza della religione cristiana, cioè della Pasqua: è morte che dà la vita».
«Quando noi non capiamo che il kerygma deve plasmare la nostra anima e la nostra vicenda personale – conclude il Patriarca – non capiamo che quella del cristiano è vicenda di morte e risurrezione. Ma quando abbiamo dimestichezza con la preghiera, tutto si fa molto semplice e tutto si conclude con una parola sola, che contiene l’universo: la parola Gesù».