«I mesi che ci stanno davanti sono affascinanti perché sono difficili. E le cose difficili rendono felici». Il Patriarca Francesco apre uno scenario tanto fascinoso quanto impegnativo alle coscienze cristiane.
Lo fa durante l’omelia della Messa presieduta, domenica 3 maggio, nel santuario di Borbiago. «I mesi che ci stanno davanti – afferma – ci chiedono di essere cristiani e comunità responsabili. Non saranno mesi facili: saremo chiamati a ripensare le nostre convivenze, il nostro modo di stare insieme, di essere città e comunità. Si tratterà di avere una visione e di avere la forza per attuarla».
La grande crisi della pandemia è anche un’occasione per trarre da essa una lezione e per reimpostare il nostro convivere secondo la visione cristiana: «La ragione economica e la visione sociale – prosegue il Patriarca – fanno parte dei saperi umani e il cristiano non ha nulla contro la razionalità dell’encomia, perché la considera una parte della razionalità umana. Ma l’economia è solo una dimensione dell’attività umana nella polis. E se il profitto e i bilanci sono il criterio ultimo, allora l’uomo diventa un mezzo, non più il fine. Ne consegue che il welfare – inteso non solo come offerta di un sistema sanitario, ma come benessere dei cittadini – sarà qualcosa che viene dopo il criterio dell’economia, e abbiamo visto con che risultati».
Al punto che è legittimo porsi una domanda: «Abbiamo colto un’impreparazione non tanto nel conoscere il virus, che poteva essere legittima e logica, ma – e mi riferisco a tutti gli Stati – a rispondere ad una domanda: non si sarebbe potuto prevedere qualcosa di più e prevenire, non dando l’impressione di correre sempre ai ripari?».
Si tratta quindi di ripartire da un discorso umano, antropologico, dalla visione dell’uomo, prima che che da un progetto economico o finanziario o di organizzazione dello Stato. E la visione, per il cristiano, è limpida ed esplicita nella Buona Novella: «Il Vangelo – afferma mons. Moraglia – ha un pensiero sociale, che vuole valorizzare l’economia, la finanza, l’organizzazione dello stato, ma all’interno di una visione di uomo che non è mezzo ma è fine, soprattutto là dove l’uomo è debole e fragile».
Perciò, come cristiani, si vuole dare un contributo, in questa fase, «perché economia, finanza e organizzazione dello Stato, pur muovendosi con leggi proprie e autonome, non siano degli assoluti. Semmai vanno letti, interpretati e connessi con la centralità della persona e con i principi della solidarietà, della destinazione universale dei beni e con la sussidiarietà. I poveri rimangono poi la scelta preferenziale».
Questa è, appunto, tanto la sfida quanto la grande opportunità della ripartenza, che, secondo il Patriarca Francesco, «non può essere ridotta alle mascherine, ai guanti o al distanziamento sociale, doverosi e che dicono responsabilità, ma che non bastano».
Un percorso, questo, che non è utopia: è ripercorrere un sentiero già solcato nella storia, anche in quella recente italiana. «È come dopo la seconda guerra mondiale: dopo tante sofferenze vissute negli anni ’40-’45 e che il periodo precedente aveva preparato, l’Italia ha saputo ripartire con una Costituzione che metteva in chiaro una ben precisa visione dell’uomo. Ricordo, per esempio, il Codice di Camaldoli: in esso pensatori cristiani che amavano una fede capace di intercettare l’uomo e l’economia hanno voluto ripartire non dalla pura economia, dalla pura finanza o dall’organizzazione efficiente della macchina statale, ma da una visione della persona. Perciò hanno scelto di costruire una convivenza diversa rispetto agli anni tragici precedenti, mettendo al centro la persona, le relazioni familiari e sociali. È nata così l’Italia della speranza».