«Siamo invitati a camminare insieme e a ricostruire un sistema che, soltanto lentamente e con fatica, prenderà forma nella vita di ciascuno di noi e nella convivenza sociale, chiamati ad impegnarci non in una sfida individuale, ma a lavorare per gli altri e con gli altri». È l’invito di fondo che il Patriarca Francesco rivolge a tutti ed è al cuore della sua omelia, pronunciata oggi, sabato 25 aprile, festa di San Marco Evangelista, patrono di Venezia.
In San Marco il Patriarca ha celebrato ancora una volta senza la presenza dell’assemblea: «Celebro per voi e con voi, in questa modalità “virtuale”, col desiderio grande di poter presto tornare a celebrare insieme».
Al centro della riflessione il grande e tragico evento che sta ancora colpendo non solo il nostro Paese ma tutto il pianeta. E non è solo una questione geografica: «La pandemia non ha fatto distinzioni tra Stati e Stati, in base all’appartenenza o meno al G7 piuttosto che al G20».
Semmai, la pandemia sta ricordando a tutti il significato dell’essere individui e quello dell’essere comunità, e come le deformazioni di questi concetti possano produrre disastri: «Per le scelte umane ci viene richiesto un forte senso di responsabilità personale; il bene comune, prima che alle pubbliche istituzioni, è affidato ai cittadini. Gli uomini non sono isole e, se qualcuno aveva tale convinzione, Covid-19, in poche settimane, ha dimostrato che gli uomini sono una famiglia. Una volta si usava questa espressione “famiglia umana”; Covid-19 ci ha ricordato che il vivere per l’uomo è sempre un convivere».
Un convivere la cui importanza viene sottolineata dall’esperienza della malattia e da quella della morte: «La salute, fino ad un recente passato – afferma il Patriarca – era considerata, dai più, bene individuale, della persona, ora, dopo Covid-19, nessuno non può non vederne la rilevanza sociale. Perciò tutta la visione della persona va ripensata in rapporto al bene comune; il seguente passo dell’enciclica Laudato si’ è chiarificatore: “…nessuna creatura basta a se stessa, … [le creature] esistono solo in dipendenza le une dalle altre, per completarsi vicendevolmente, al servizio le une delle altre” (n. 86)».
Perciò la grande crisi causata dal Coronavirus è anche una grande occasione per ripensare insieme il modello del nostro vivere insieme, oltre a quello dell’essere individuo: «Noi non conosciamo a sufficienza – prosegue mons. Moraglia – i futuri scenari ma una cosa è certa, non sarà sufficiente cambiare esteriormente alcuni stili di vita, attenendosi solo ai nuovi protocolli sanitari richiesti. Se Covid-19 ci ha colti impreparati non significa che tutto è successo all’improvviso; proprio per questo è necessario un ripensamento a 360° del bene comune in tute le sue forme. Sì, l’uomo va pensato sempre più come relazione, non intendendo il termine relazione solo sul piano filosofico, ma anche culturale, sociale, economico, finanziario, mediatico; siamo nell’era della globalizzazione, in cui s’interagisce sempre, anche se manca la consapevolezza».
Ma se se si pone al centro l’uomo in relazione all’altro uomo e nella relazione di tutti con l’ambiente, casa comune dell’umanità, diventa necessario riconsiderare i grandi protagonisti della nostra civiltà, così come sono stati intepretati e vissuti fino ad adesso: «L’Occidente è sempre più plasmato dalla tecno-scienza, considerata in maniera acritica per i successi a cui perviene in ordine all’efficienza, alla crescita della ricchezza, per altro, non equamente distribuita. Così si sono messi in secondo piano indicatori più umani, la persona, la famiglia, il bene comune, la destinazione universale dei beni, la solidarietà, la sussidiarietà, la salute pubblica ed individuale e, oggi, se ne raccolgono i risultati».
«Un pianeta “sfruttato” – continua la meditazione del Patriarca Francesco – in cui viene negato il rispetto dell’ambiente, ossia, il “creato”, che ci ricorda e conduce al Creatore e in cui si pone in antagonismo, se non in teoria nei fatti, il diritto al lavoro e quello alla “salute”. Tali visioni, che sottendono similari progetti culturali e politici, hanno privilegiato, o non sufficientemente contrastato, scelte economiche che hanno diviso il mondo fra ricchi e poveri. La differenza tra persone abbienti e meno, alla fine, è accettabile; inaccettabile, invece, è che vi sia un mondo diviso fra ricchi e i poveri, fra chi ha patrimoni immensi e chi muore di fame».
E le conseguenze sono drammatiche e riassumibili in due numeri percentuali: «L’Occidente è giunto all’inverno demografico ed è estenuato dalle sue stesse scelte individualistiche, relativistiche, consumistiche; la persona non si misura sul bene comune ma, piuttosto, il bene comune sui desideri e le aspettative delle persone. In questi giorni, secondo l’ultimo rapporto Oxfam, l’1% della popolazione mondiale possiede l’82% delle ricchezze totali del pianeta».
Una disuguaglianza tanto radicale da produrre sconquassi inaccettabili: «Abbiamo prodotto molto in termini di benessere e siamo caduti nel consumismo. Scienza e tecnica hanno dato molto all’uomo, in termini di conquiste e realizzazioni, ma non hanno saputo dargli ciò che era necessario, ossia un’anima, una saggezza, un’etica in grado di governare l’enorme potenziale della tecno-scienza. Il fatto è che le conquiste devono riguardare l’intero orizzonte antropologico, in ogni sua dimensione, e non solo la ricerca genetica o gli studi economici. Bisogna ricomprendere anche l’etica, la filosofia, la teologia».
Perciò, conclude il Patriarca nell’omelia nella festa di San Marco, questo è il tempo in cui la politica può fare il salto di qualità e recuperare una visione e una strategia capaciti di ripensare all’uomo come relazione e al bene comune: «Le modalità con cui, finora, si sono prese le decisioni da parte della politica non pongono al centro né la persona né i popoli, ma altri interessi, anche se la retorica su tali temi non manca. Vi sono infatti élite che hanno la forza d’orientare la finanza, l’economia, l’informazione e la politica attraverso uomini e donne da loro creati. Così, talvolta, nella politica, possiamo trovare persone di poca esperienza e competenza, soggetti fragili e manovrabili; altro grave rischio è poi l’anti-politica, con la deriva populista. La politica, invece, è questione delicata e seria e, per il cristiano è, addirittura, atto di alta carità».
Da queste ragioni sgorga, appunto, l’invito finale a ricostruire un sistema non lanciandoci in sfide individuali ma nel lavoro con gli altri e per gli altri.