Un nuovo sacerdote per il Patriarcato di Venezia: si chiama don Gianluca Fabbian, ha 27 anni e arriva da Borso del Grappa – diocesi di Padova e provincia di Treviso – dove ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza e tuttora vive la famiglia d’origine (papà, mamma e un fratello più piccolo).
Verrà ordinato per l’imposizione delle mani del Patriarca Francesco nel corso della celebrazione eucaristica che si terrà sabato 7 aprile, alle ore 10, nella basilica cattedrale di S. Marco.
Gianluca aveva frequentato per alcuni anni il Seminario di Padova e si era anche diplomato all’istituto agrario; ha quindi vissuto un anno di esperienza tra i benedettini dell’isola veneziana di S. Giorgio per attraversare poi – metaforicamente e non solo – il canale della Giudecca ed approdare, nel 2014, alla Salute dove è entrato a far parte della comunità del Seminario Patriarcale completando qui il suo percorso di studi e discernimento in vista del sacerdozio; quasi un anno fa è stato ordinato diacono.
In questi anni veneziani ha sempre collaborato con la parrocchia di S. Pietro in Bosco di Oriago ed ora opera nella più ampia collaborazione pastorale.
Don Gianluca presiederà la sua “prima Messa” domenica 8 aprile, alle 9.30, nel suo paese natale di Borso del Grappa, lì dove tutto è cominciato, mentre l’appuntamento di festa con la parrocchia di S. Pietro e la collaborazione pastorale di Oriago è fissato, in particolare, per domenica 15 aprile nella S. Messa delle ore 10 (a S. Pietro in Bosco).
Nella tua vocazione, lo sottolinei sempre con riconoscenza, ha avuto un ruolo importantissimo il vecchio parroco di Borso del Grappa don Mario De Agostini…
Il mio parroco, l’unico che ho avuto finché sono stato a Borso, è stato fondamentale perché… lo vedevo contento. Sì, era un testimone contento della vocazione che il Signore gli aveva donato e che lui ha sempre accolto con disponibilità, dedizione e gioia. È stato un esempio per un giovane, come me, che si faceva la stessa domanda: che cosa vuole il Signore dalla mia vita?
Ma cosa faceva o diceva esattamente quel prete?
Non mi ha detto tante cose. Non mi ha detto, ad esempio, cos’è il sacerdote o cosa bisogna fare per essere sacerdoti. Me lo ha testimoniato. E con la sua gioia, il suo sorriso e il suo modo di operare all’interno della comunità mi ha parlato e insegnato più di tante lezioni…
In un pezzo che hai scritto per una comunità del tuo paese d’origine, in vista dell’ordinazione, affermi di voler incarnare la figura di “sacerdote felice”. Perché ritieni così decisivo questo fattore?
Essere un sacerdote felice non significa essere una persona che ride dalla mattina alla sera, sarebbe banale… Per me un sacerdote felice è colui che ha incontrato Cristo e Cristo è divenuto il centro della sua vita. Questa prospettiva è necessaria: incontrare Cristo per poter andare incontro ai fratelli.
E i preti che incontri, in genere, sono felici?
Per fortuna, anzi… per grazia, il Signore mi ha messo spesso accanto persone contente. Sia a Padova che a Venezia ho incontrato sacerdoti contenti che, con il loro esempio, mi hanno dato una spinta e mi hanno fatto vedere che vale la pena ed è bello seguire il Signore e accogliere quello che Lui vuole per me.
C’è qualcosa che ti preoccupa o ti fa pensare rispetto ai compiti e alle responsabilità che, da prete, assumerai?
Non ci dobbiamo nascondere che il contesto storico e sociale continua a cambiare radicalmente. Vedo che anche la formazione del prete, di anno in anno, richiede costanti modifiche ed attualizzazioni da parte dei superiori. Anche le generazioni cambiano molto velocemente… La preoccupazione o, meglio, il desiderio che ho è quello di far capire che, però, Gesù Cristo non è cambiato. Possiamo leggere o attualizzare il Vangelo in modo diverso ma l’incontro con Cristo rimane non tanto una cosa di teologia o di scienza ma incontro con una persona. E anche in questo contesto, apparentemente difficile, spero di incontrare e far incontrare Cristo nelle persone che Lui mette a fianco. La cosa non è mai banale perché l’incontro con Cristo cambia la vita e seguire Cristo non è una cosa da vecchi o da bigotti, ma è qualcosa di necessario per la nostra vita.
Quando dici alle persone che tra pochi giorni diventerai prete… come reagiscono?
La gente è contenta, specialmente quelli che mi conoscono e hanno seguito i miei itinerari di formazione. Non trovo gente che rimane sbalordita o mi dice: cosa stai facendo? Qualcuno mi dice che sono coraggioso, altri mi fanno gli auguri ma tutti, anche chi non pratica molto, mi sembrano contenti. Se è quello che desideri, mi dice qualcuno, portalo a compimento.
Sempre in quello stesso articolo sottolinei l’importanza di «celebrare la Santa Messa e donare il perdono di Dio nel sacramento della confessione» e affermi di voler recuperare «il valore di quella che un tempo veniva definita cura d’anime». Quasi un programma antico… ma cosa significa oggi?
Penso ad un prete che ha cura e ci tiene alla sua gente. Un prete che vuole far bene il prete ed avvicinare le persone al Signore deve saper stare con la sua gente, in parrocchia. La gente si deve affezionare a lui e lui deve sapersi relazionare con persone anche molto diverse tra loro. La parola “cura d’anime” sarà, forse, antica ma va recuperata perché sento che le persone hanno bisogno del prete e lo cercano, anche le persone per certi versi più distanti, come un punto di riferimento. E in questo contesto – nel quale i preti sono sempre meno – lo capiamo ancora di più.
Il tuo percorso vocazionale ha avuto delle “curve” e qualche sbalzo… Oggi, a poche ore dall’ordinazione sacerdotale, come lo rileggi?
Il Signore si serve anche delle difficoltà per guidare la storia di ogni persona. Anche la mia. In passato i momenti bui, difficili e di poca chiarezza erano un modo per chiedermi se fosse quella davvero la mia strada o se, invece, era uno sbaglio. Oggi dico che il Signore mi ha saputo guidare anche in quei momenti di difficoltà che erano sorti in me e che ora non vedo come sconfitte, anzi… mi sono serviti per la mia maturità umana e spirituale. Il Signore si è servito di apparenti fallimenti per non lasciarmi solo, per accompagnarmi e formarmi come cristiano, come persona autentica, forte e resistente.
«Tu sei sacerdote per sempre», dice il salmo. Ti spaventa questo “per sempre”?
No, non mi spaventa. Sono contento che ci sia questo “per sempre”. Le grandi scelte della vita, sia quella presbiterale che quella matrimoniale degli sposi, non sono delle prove. Sono per sempre, è molto chiara la cosa. Non è per un tempo o fino a quando mi sento e poi si vedrà… Il Signore da noi chiede tutto, non vuole solo una metà delle nostre cose e poi con l’altra possiamo fare altre scelte che esulano da Lui. Ci chiede fedeltà, per vivere bene la chiamata. Certo, le difficoltà ci sono e ci saranno ma vanno affrontate con il Signore. Con Lui ci si può fidare di dire “per sempre”. Sono però necessarie tre cose…
Quali?
La preghiera, che è la linfa che alimenta la mia vita e il mio rapporto con il Signore e le persone che incontro. La fiducia nel Signore, che significa lasciarsi condurre anche dove talvolta non si capisce… ma Lui poi ti dà la chiave di lettura che è, in fondo, Lui stesso. E infine quel “per sempre”, una scelta che non potrà mai cessare ma dovrà sempre crescere.
L’esperienza pastorale ad Oriago, dove operi già da qualche anno,che cosa ti ha dato?
Mi sono sentito subito ben accolto dalla gente e dal parroco don Cristiano. Non è scontato e poi bisogna anche farsi volere bene dalle persone che si incontrano… Questi anni ad Oriago mi hanno formato e sono stati fondamentali anche per inserirmi in un contesto diocesano diverso e che ho imparato a conoscere, apprezzare ed amare.
E come si vive la collaborazione pastorale ad Oriago?
Adesso don Cristiano è diventato parroco di tre comunità e la gente, magari, è un po’ preoccupata perché vuole bene al parroco. Tre parrocchie sono certamente impegnative e ci sono tante cose da fare. Ma vediamo tutti che lui per primo è contento, anche se ci sono giornate più intense e stancanti, e questo penso derivi proprio dal suo incontro personale con Cristo. Collaborare, poi, è un modo per aiutarsi reciprocamente tra comunità, unire le forze e crescere sempre di più. La gente è ben disposta, vive la collaborazione pastorale in maniera serena, non calata dall’alto, e intuisce che può essere una cosa bella e valida. C’è desiderio di collaborare e questo è molto positivo perché spinge ad osare e a rischiare, anche se non è e non sarà sempre facile.
Alessandro Polet