«Per me la morte è incontro con Gesù, è il paradiso, è la meta della nostra vita»: così una decina di giorni fa don Antonio Biancotto parlava della morte. In questa intervista pubblicata nello scorso numero di Gente Veneta (il n. 22 del 31 maggio), don Antonio – mancato martedì 4 giugno, poco dopo la mezzanotte, all’Ospedale Civile di Venezia – raccontava con serenità il tempo della malattia e il conforto che viene dalla fede in Cristo.
La proponiamo in suo ricordo, ma anche come testimonianza di coraggio e di speranza.
I funerali di don Antonio Biancotto, presieduti dal Patriarca Francesco Moraglia, si terranno lunedì 10 giugno alle ore 11 nella chiesa parrocchiale di San Silvestro a Venezia. Al termine il corpo di don Antonio troverà sepoltura nel cimitero di Portegrandi.
«Io sono sereno, perché la morte è solo un passaggio e noi siamo destinati a contemplare l’infinito di Dio. Ma a chi oggi sta bene dico: godetevi la vita, perché la vita è bella».
Don Antonio Biancotto risponde dalla sua stanza d’ospedale, a Venezia. Ha piacere di raccontare il momento pesante che sta vivendo: c’è qualcosa da condividere anche nei momenti più drammatici, c’è la verità della nostra condizione da riconoscere e raccontare. E c’è la luce anche quando a molti sembra che stia per iniziare la notte.
Don Antonio, in questo tempo di malattia le è venuto da chiedersi “perché proprio a me”?
No, semmai mi sono detto: che peccato… Ero in una fase di stanchezza perché ho 66 anni, però pensavo di avere un’autonomia di altri dieci anni. “Perché proprio a me?” non me lo sono chiesto anche perché – soprattutto adesso che sono in ospedale – mi trovo a contatto con persone talmente fragili, più fragili di me, che non mi sento di pormela, perché stanno peggio di me. Non mi viene spontanea…
L’esperienza d’ospedale con persone altrettanto in difficoltà che cosa le fa pensare?
Intanto me le fa sentire vicinissime, perché siamo nella stessa barca. E poi mi fa pensare che prima ero una persona sana che annunciava il Vangelo, adesso sono una persona malata che in mezzo ad altri malati si sforza di seguire Gesù: cosa che non è difficile, anzi, ti aiuta. Quindi condivido con loro ansie e preoccupazioni, mi vengono a trovare in stanza oppure vado io e condividiamo. Io ascolto tanto gli altri malati e mi fa bene ascoltare. E poi dico una parola di conforto, ma convinta, perché ci sono dentro anch’io, non dico parole di circostanza. Vuole un esempio?
Prego.
Oggi è venuto il Patriarca. Ha parlato con me, del futuro, voleva salutarmi, essermi vicino, pregare con me… Poi gli ho detto: vuole che andiamo nella stanza vicina e salutiamo una mamma che ha tre ragazze e la benedice? Perché io ho 66 anni, sono libero e ciononostante desidero guarire lo stesso; ma lei che ha famiglia e legami ancor di più. Magari la incoraggia. Siamo andati ed è stato un momento molto toccante: vedo che la mia malattia mi fa stare in mezzo agli altri in maniera diversa, favorendo questi incontri. La signora si è commossa e il marito ringraziava. A me fa tanto piacere. È un po’ di bene che ci scambiamo fra malati.
È cambiata la sua considerazione del tempo che passa? E del valore delle cose?
Tanto. Fino a qualche tempo fa ero in una situazione precaria, la fase uno, ma adesso sono passato alla fase due. Meglio chiamare le cose con il loro nome. La fase uno è il combattimento contro il male attraverso l’immunoterapia e altri farmaci: i medici hanno fatto quello che hanno potuto, ma adesso sono entrato nella fase della medicina palliativa, di contenimento del male, non più di battaglia. E spero che funzioni: ho visto tanti cui hanno dato tre mesi di vita e dopo anni ci sono ancora…
Come sta vivendo questa fase?
Come una spoliazione. Mi devo cioè spogliare di certe mansioni e ruoli che avevo prima. Ma mi sento un po’ libero. Sento mie le frasi che Gesù dice a Pietro: “un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”. Ecco, oggi per me è un po’ così. Per esempio: non riesco più a svolgere i compiti di pulizia personale. Ma ho trovato nella cappellania dell’ospedale, in don Gianpiero Giromella e nella sua équipe, un sostegno materiale e spirituale importante per me. In particolare, una persona dell’équipe, un ex infermiere, mi fa la barba, mi lava dove non riesco… Questa è la spoliazione, devo dipendere da altri. Ma lui lo fa con amore, con cura…
Ma la spoliazione è più un’umiliazione o un conforto?
Un conforto. Il Signore mi sta facendo scuola, mi fa andare all’essenziale. Non è una umiliazione, sono nelle mani del Signore, sono libero ormai. Cosa vuole che difenda ormai? Per cui sono sereno. Certo che alcuni momenti di fatica, come la notte scorsa, mi mettono in difficoltà e prego il Signore che che mi liberi dal male, dagli effetti collaterali e anche dal male grande che è il tumore.
Cosa pensa oggi della morte?
Mi confronto con la morte, che ho predicato tante volte. Per me la morte è incontro con Gesù, è il paradiso, è la meta della nostra vita. Mi fa paura soltanto il soffrire prima di arrivarci. Il dolore prima sì, quello mi spaventa. Ma con la medicina palliativa si può andare avanti.
Oggi la sua sofferenza fisica è sopportabile?
Sì, la sofferenza è per ora sopportabile. E quindi confido nella medicina palliativa, specie se dovessi peggiorare.
In questo periodo come è cambiata – se è cambiata – la sua fede?
Sento il Signore tanto vicino, proprio tanto vicino: è con me, dentro di me, soffre con me. Poi, vedendo tanta gente, i parrocchiani che, per esempio, fanno un pellegrinaggio alla Salute per chiedere una grazia per me, trovo conforto. Tanti, poi, vorrebbero venirmi a trovare ma io non li posso ricevere perché mi manca il respiro. Per me è un momento delicato e qualche volta mi viene da dire: ma perché Signore?, no, basta, ti prego…: un po’ di ribellione mi nascerebbe nel cuore; poi però mi affido e mi torna la pace. Capisco comunque quelli che si ribellano e chi è in difficoltà perché non animato da fede: non so come facciano, io non riuscirei da solo ad affrontare umanamente e psicologicamente questa malattia. Quello che noto è che la mia fede sta diventando sempre più essenziale. Quando uno è infermo e deve mollare la parrocchia davvero deve concentrarsi su ciò che conta. E poi sento quanto è importante la comunità cristiana, che mi ha salvato anche in altri frangenti. Gesù è il capo del corpo, è Lui che agisce. Ma la Sua Chiesa fa sentire vicini: per esempio, i miei confratelli della congregazione di San Silvestro sono venuti a trovarmi e mi ha fatto molto piacere. Poi ci sono i tanti laici… Questo mi dà la percezione di un corpo che si interessa alla realtà di un membro fragile quale sono io adesso.
Ha dei rimpianti?
Sì. Se potessi tornare indietro vorrei essere meno intransigente all’interno della compagnia di Cristo. Vale davvero la regola per cui chi non è contro di noi è per noi; io invece sono stato un po’ rigido su questo. Il rimpianto è che a volte dovevo essere più aperto a riconoscere il bene, da qualsiasi parte veniva e non necessariamente dalla mia cerchia. Ho il rimpianto di essere stato troppo severo.
Cioè: quando si è malati si è più amorevoli con il mondo, è così?
È così. Mi sento sereno con gli altri. Ne ho talmente tante io di cui chiedere perdono… La malattia di rende più capace di comprendere. Comunque sono tranquillo e spero che il Signore mi continui a sostenere fisicamente e spiritualmente.
Le cose materiali, i soldi, il potere… La malattia come ne ha cambiato la considerazione?
Se già non li tenevo in gran considerazione prima, adesso ancora di meno. Ricordo che ho proposto più volte che nel rito di insediamento di un nuovo parroco siano introdotti il catino e l’asciugamano, così che il sacerdote lavi i piedi a due rappresentanti della parrocchia che si appresta a guidare. Mi pare un segno bello: dice il servizio che si vuole offrire. E anche tutti i titoli onorifici, che non mi interessavano prima e adesso ancora di meno: troviamo altre vie…, sono retaggi del passato.
Se lei avessi davanti in questo momento i giovani delle sue parrocchie, oppure i detenuti e le detenute che da 27 anni segue come cappellano nelle carceri veneziane, e che sono in condizioni difficili ma di certo non pensano alla malattia e alla morte, che cosa direbbe loro?
Di gustare la vita: il cielo, l’amicizia, il sole, le vacanze, il darsi agli altri, la gioia di spendersi, in attesa di cieli nuovi e terre nuove. Con gioia di vivere dentro: caspita, ne abbiamo bisogno! A volte siamo troppo concentrati sul dovere ed è giusto, ma dai, è bello anche gioire. Sono buoni anche i piaceri della tavola: certo – direi loro, non ubriacatevi, non bevete spritz a nastro… – ma gustate le gioie semplici che il Signore ci dà. Prima è entrata da me una volontaria dell’Avapo e mi diceva di sua figlia che ha un grande amore per la natura e gli animali. È una cosa bellissima, le dicevo: l’ecologia è da gustare e costruire, prima ancora che un tema rispetto a cui protestare. Insomma: amate la vita e sappiate che la morte è solo un passaggio, perché siamo destinati a contemplare l’infinito di Dio. Quindi vita, vita, vita…
Ha qualche momento di paura?
Il dolore fisico mi fa paura. E quando sarà il momento estremo spero che qualcuno mi sia vicino e mi incoraggi nel momento del trapasso, cioè che preghi con me, così come i miei genitori mi hanno insegnato a fare con i nonni e con gli zii anziani, per cui andavamo al loro capezzale, si pregava insieme a loro e si sapeva che di lì a poco sarebbero morti. Ma c’era un clima di fede e familiarità. Il passaggio della morte fa un po’ di timore, ma è più leggero se siamo attorniati da persone che incoraggiano, che ti dicono “siamo qui, ti vogliamo bene, facciamo il passaggio insieme”…
Giorgio Malavasi