Un artista in ricerca e in dialogo con l’Assoluto, così potremmo definire Franco Battiato, musicista poliedrico di straordinaria versatilità, cimentatosi in una sorprendente varietà di generi, dal pop alla musica sperimentale elettronica, dal rock sino al classico, lirico e sacro, e in ciascuno di questi con personalità e originalità tali da restituirne di volta in volta un’espressione particolarissima, al punto che si percepisce un flusso artistico creativo che li rende tutti intercomunicanti, ed è forse riconducibile a quella dimensione di religiosità tensionale aperta, “sperimentale” anch’essa, di cui pressoché tutta la sua produzione risulta pervasa.
Di Battiato colpisce la raffinata preparazione tecnico-compositiva, che sovente si esprime in fini tessiture di innegabile sapienza contrappuntistica, l’ampia documentazione pazientemente condotta in anni di letture e viaggi, la capacità di attenersi a un registro di razionalità nella valutazione delle culture e tradizioni spirituali incontrate e conosciute, dove se accanto a moltissime felici intuizioni si incontrano posizioni e dichiarazioni non sempre condivisibili, l’atteggiamento di fondo ci appare comunque animato da un’apprezzabile onestà intellettuale.
Frammenti d’esperienza, vorticosamente, s’agitano, attorno alla ricerca di un centro di gravità permanente, come nella nota canzone dell’album La voce del padrone del 1981, dove un caleidoscopio di brevi immagini situazionali spaziotemporalmente dislocate e nutrite di riferimenti storici e letterari compongono l’universo fluttuante di un’esperienza frammentaria che cerca di coagularsi intorno a un centro che permetta di giudicarne riconducendo la realtà a significati stabili, rimossi fino allo smarrimento esistenziale nella temperie postmoderna. Più che ad un appello alla stabilità di un fondamento veritativo ontologico-metafisico, però, siamo di fronte al riferimento ad uno stato di coscienza.
Già in quegli anni sulla produzione artistica del cantautore siciliano si fa sentire l’influsso del filosofo e mistico di origine greco-armena Georges Ivanovič Gurdjieff, e il “centro di gravità permanente” è lo stato di equilibrio della coscienza di un soggetto che dopo un lungo e paziente lavoro su di sé riesce ad armonizzare i diversi centri dei propri stati percettivi e intellettivi, volitivi e motori, e perciò ad equilibrare pure l’osservazione e il giudizio sul mondo esterno. Una concezione di indubbia derivazione gnostica, presentandosi il punto d’equilibrio raggiunto come conseguimento di un faticoso lavoro di sé su sé stessi – ma sarebbe riduttivo confinare in questo schema un artista che dimostrerà di spezzarne i limiti sotto molti aspetti – ancorché interessante nelle suggestioni di un tale appello a una qualche unificazione dell’esperienza. Un’unificazione che la tradizione cristiana vede realizzarsi in massimo grado nel vissuto esemplare della vita monastica.
E di fatto, della complessa, sempre in trasformazione e in cammino, esperienza religiosa di Battiato, la nota forse più caratterizzante è senza dubbio la dimensione meditativa e contemplativa, nettamente avvertibile nelle sue composizioni più impegnate, che lo ha portato in prossimità dell’esperienza del monachesimo. Fu lui stesso a dichiarare tale apprezzamento e a riferire di pur brevi esperienze di vita in monasteri, in piena condivisione dei tempi e della vita di preghiera delle comunità ospiti, con lunghi momenti di ritiro e di ascolto. Tale inclinazione lo avvicinò, tra le mistiche del Vicino Oriente, in particolare al sufismo, mentre pare che negli ultimi anni l’artista abbia vissuto una più marcata prossimità al Cristianesimo cattolico.
Quella di Battiato appare, di fatto, più che una forma di sincretismo, una religiosità policentrica in continua evoluzione sotto la spinta di un’appassionata ricerca, con l’apporto di contributi filosofici, in virtù anche del coinvolgimento di Manlio Sgalambro come co-autore di diversi testi, benché l’impronta schopenhaueriana e nichilista di questi appaia sotto molti aspetti dissonante dalla sensibilità dell’artista catanese. Vi è, in questa ricerca, che spazia dal monachesimo cristiano al sufismo e al buddhismo tibetano, e nei suoi esiti artistici, la capacità di rifondere gli immaginari simbolici e i linguaggi delle diverse esperienze e tradizioni religiose in un modo tale da saper parlare all’animo credente di chi si posiziona in una precisa prospettiva come quella teologica cristiana, evocando precisi riferimenti densamente significativi della propria comprensione dell’esistenza.
La consapevolezza di una Presenza che si china sull’uomo provato dalla vita è chiaramente espressa in Lode all’Inviolato (1993): «Ne abbiamo attraversate di tempeste / e quante prove antiche e dure / ed un aiuto chiaro da un’invisibile carezza / di un custode. / Degna è la vita di colui che è sveglio / Ma ancor di più di chi diventa saggio / E alla Sua gioia poi si ricongiunge. / Sia Lode, Lode all’Inviolato / Lode all’Inviolato», dove non manca un cenno all’esperienza del male ricondotta alla lontananza da Dio, e subito ridisegnata nei termini di positiva confidenza dell’inestinguibilità della Sua luce: «Quanti miracoli, disegni e ispirazioni / e poi la sofferenza che ti rende cieco. / Nelle cadute c’è il perché della Sua assenza / Le nuvole non possono annientare il Sole».
Un’autentica vetta della sua produzione, in tal senso, è L’ombra della luce (1991), ispirato al Libro dei morti tibetano, ma con affondi teologici assonanti con la comprensione giudaico-cristiana, il cui titolo esprime il fatto che le gioie più intense e gli stati di quiete più profondi che è dato esperire in questa vita, «la pace che ho sentito in certi monasteri, / o la vibrante intesa di tutti i sensi in festa, / sono solo l’ombra della luce». L’arte di Battiato qui si eleva a preghiera: «Ricordami, come sono infelice / lontano dalle tue leggi; / come non sprecare il tempo che mi rimane. / E non abbandonarmi mai… / Non mi abbandonare mai!».
Tema dominante della spiritualità in musica di Battiato, e splendidamente percorso, è quello della relazione intersoggettiva, che ha dato forma ad opere di alto significato umano quali E ti vengo a cercare (1988), eseguita anche davanti a Giovanni Paolo II in Sala Nervi, il 18 marzo 1989, dove la relazionalità autentica e profonda con la persona altra è considerata nella circolarità sostanziante del ritorno presso di sé – «E ti vengo a cercare / anche solo per vederti o parlare / perché ho bisogno della tua presenza / per capire meglio la mia essenza» –, e dove il necessario superamento dell’effimera mediocrità dell’appagarsi «di piccole gioie quotidiane» richiama per analogia l’intensità della vita contemplativa e invita a «fare come un eremita / che rinuncia a sé».
Ancor più significativa e toccante in tal senso La cura (1997), che trasfigura la relazione nell’atto d’amore fondamentale e permanente del prendersi cura della persona amata nei suoi limiti e fragilità, e che si presta a diversi livelli di interpretazione, sino al piano teologico, se pensiamo che il tutto sembra assumere i toni di un canto d’amore del Creatore alla sua creatura, se non altro perché quanto promette il testo apparirebbe, umanamente, un compito ineseguibile, a meno che, in questo amore disposto a farsi carico di tutto e a superare «le correnti gravitazionali / lo spazio e la luce per non farti invecchiare», non si accenda in chi lo proferisce il riflesso dell’amore stesso di Dio, e in tal modo possa assumere senso anche umanamente: «E guarirai da tutte le malattie / Perché sei un essere speciale / Ed io, avrò cura di te».
Il sacro, ampiamente percorso nell’esperienza artistica di Battiato, è dominante nella sua produzione lirica e “classica”, di cui una vetta è senza dubbio la particolarissima Messa arcaica per soli, coro e orchestra, eseguita il 24 ottobre 1993 nella Basilica superiore di San Francesco ad Assisi: una composizione di grande intensità nell’originale costrutto che ricalca lo schema tradizionale del genere (con una limitazione del Credo ai soli articoli trinitari) in una magistrale fluidità delle soluzioni compositive che conferiscono profondità meditativa e lineare coerenza all’insieme: un esempio di quella che, a riguardo della sua produzione, è stata definita per le sue caratteristiche, all’ascolto, di distensione quasi metatemporale, “musica ferma”.
Ma potremmo citare ancora l’opera Telesio (2011), ispirata alla figura del filosofo naturalista rinascimentale, dove l’artista riprende l’Attende Domine nella precisa linea del gregoriano, corredandola di una delicata e sobria orchestrazione originale. In questo filone lirico-classico ricordiamo ancora le opere Genesi (1987), dalla complessa architettura in cui convergono adattamenti di testi antichi dal sanscrito, persiano, greco e turco e trovano spazio un Rorate coeli e un Kyrie, in cui recupera con sapiente misura atmosfere e strutture sonore delle sperimentazioni dei primi anni, e Gilgamesh (1992), in cui compare un elaborato e suggestivo Pater noster per soli, coro e orchestra.
Una musica colta e ricercata, quella di Battiato, intessuta di toni delicati e sfumature; concepita, con le sue fini tessiture compositive distese su note dilatate, quasi stirate, su cromatismi soppesati e sfumati in passaggi a volte più avvertibili per il minimalismo contrappuntistico strutturale, quasi acquarellato, sottostante, quasi lo scorrere di una dimensione metatemporale – «Un Oceano di Silenzio scorre lento […]» –, … concepita, dicevamo, per i silenzi dello spirito e tanto lontana dalla saturazione di rumore e inquinamento acustico del nostro tempo da rappresentare oggi un prezioso patrimonio di (ri)educazione a quell’ascolto che non sarà mai veramente tale se non saprà farsi, ancora, silenzio. «[…] Quanta pace trova l’anima dentro / Scorre lento il tempo di altre leggi / di un’altra dimensione / E scendo dentro un Oceano di Silenzio sempre in calma» (Oceano di silenzio, 1988).
Alberto Peratoner