Intervenire anche su chi compra, perché lo spaccio della droga è il frutto di un mercato: chi vende esiste solo perché c’è qualcuno che acquista. E poi ricordarsi che chi vende non ha nulla da perdere e non teme qualche giorno ma neppure qualche anno di galera.
Sono le due piste che il Procuratore capo di Venezia Bruno Cherchi indica per cercare di contrastare con più efficacia il fenomeno che produce degrado e insicurezza nella zona della stazione a Mestre.
Cherchi, Procuratore capo in laguna dal 2017, in questi anni ha seguito con cura e sistematicità il problema: il maxi-blitz del 2018 in via Monte San Michele, con 42 arresti e i successivi processi con pesanti condanne, sono frutto del suo coordinamento. E tuttora – sottolinea – procedono le indagini, che ovviamente si svolgono a partire dai reati commessi, non essendo la prevenzione compito della Procura.
Nel 2018, appunto, il maxi-blitz. E poi, dal punto di vista della Procura, che cos’è successo?
La nostra attività, in quel caso, è finita con una sentenza di condanna per associazione a fini di spaccio, confermata in appello. Quei soggetti sono stati condannati, anche abbastanza pesantemente. Poi il problema si è riproposto, essendo quella una zona in cui notoriamente c’è la possibilità di acquistare sostanze stupefacenti: chi ne cerca si reca lì e la trova. Tant’è vero che sono continuati gli arresti in flagranza e i giudizi che ne conseguono. Quindi l’attività prosegue. Ma se il mercato in quell’area continua ad essere florido, bisogna domandarsi il perché: perché è vero che ci sono quelli che spacciano, ma ci sono anche quelli che chiedono droga…
Ci sono ancora organizzazioni criminali che gestiscono lo spaccio nella zona della stazione, come quella smantellata nel 2018?
Se ci fosse stato qualcosa di quel genere avremmo proceduto o procederemmo di conseguenza. Gli arresti in flagranza sono una cosa un po’ diversa, perché evidenziano un dato finale: sono l’ultima ruota di un carro che produce, occulta, trasporta e fa varie cessioni, che si concludono con colui che poi cede per strada. Quindi la catena è molto lunga. Il fatto che ci siano gli arresti in flagranza significa che c’è anche un rifornimento di stupefacenti e che quindi l’attività di vendita ha alle spalle qualcuno. Ma elementi per dire che esiste un’organizzazione criminale organizzata allo stato evidentemente non ci sono, altrimenti avremmo già proceduto come cinque anni fa.
Rispetto ai reati commessi e per i quali si procede all’arresto, si dice che i responsabili, pur condotti al giudizio, ricevano pene modeste o che comunque non dissuadono rispetto al tornare a spacciare. Pene inefficaci per disincentivare il fenomeno: è così?
È così, ma con una spiegazione diversa. È così nel senso che il fenomeno non viene disincentivato dalle pene, che però non sono affatto pene di basso carico. Sono pene anche rilevanti. Il problema è che lo spaccio al minuto, per strada, è gestito da soggetti che hanno poco da perdere e per i quali anche passare qualche tempo nelle carceri non è un grosso problema. Abbiamo una quantità di persone disponibili, per le loro condizioni soggettive, che non hanno paura della repressione penale. Non è un problema che riguarda solo Mestre; abbiamo situazioni in Italia anche più gravi.
Che fare, dunque?
Il fenomeno di Mestre, che pure è rilevante, è difficile da fermare perché c’è troppa gente disposta a rischiare qualche giorno, o anche qualche anno di galera per i benefici economici che lo spaccio garantisce. Ma questo fenomeno non può essere fermato solo con un sistema repressivo. È chiaro che la repressione ci deve essere. Abbiamo esperienza più che ventennale di questa tipologia di reato, ma il fatto che non si riesca non dico a eliminarlo ma neanche a contrastarlo efficacemente dipende da due problemi centrali.
Quali?
Intanto il mercato, perché qualsiasi attività, anche delittuosa, nasce dal mercato. Se c’è una quantità così grande di persone che cercano sostanze stupefacenti, automaticamente si troverà qualcuno che gliele vende. Questo qualcuno che gliele vende, perlomeno per il mercato di strada, è fatto di soggetti che non hanno niente da perdere, gente che non ha problemi nel macchiarsi la fedina penale. Per cui faremo altre operazioni e altri arresti, ma il fenomeno nel suo complesso non si risolve. E questo non è un problema solo mestrino e neppure solo italiano, ma è internazionale. Perché lo stupefacente che si muove dai luoghi di produzione verso l’Europa produce un’economia, una quantità enorme di denaro e di gente: un “mare” che il nostro “cucchiaino” di via Piave non è certo adatto a prosciugare. E comunque pensare di chiudere il fenomeno dello spaccio in via Piave o in altri posti con la sola repressione è impensabile.
Nei giorni scorsi il generale dei carabinieri Conforti in un’intervista diceva che una delle misure di contrasto più efficaci è che le persone, una volta arrestate e condannate per spaccio di droga, vengano poi espulse…
Le espulsioni sono un ottimo strumento. Ma funzionano bene sui numeri limitati. Se le persone da espellere sono decine e decine e decine, queste operazioni iniziano a essere meno attuabili, per due motivi. Intanto perché le forze di polizia cominciano a essere in difficoltà, perché fare espulsioni non è solo firmare un foglio di carta, ma portare materialmente il soggetto fuori dai confini nazionali, con tutto quello che dal punto di vista organizzativo ed economico ciò comporta. Ma c’è un altro problema: che l’espulsione è legata a qual è il Paese di origine del soggetto da espellere. Il Paese d’origine dev’essere disposto a riprenderselo e non tutti i Paesi sono disponibili: per esempio, la Nigeria è tra quelli non disponibili, anche perché mancano i registri dello stato civile, o non sono completi, così che non si sa dove queste persone vivessero… Che espulsioni possiamo fare nei confronti di queste persone? Certo, si tratta di creare rapporti internazionali che consentano l’operazione, ma per ora le difficoltà restano.
Giorgio Malavasi