«Sono arrivata qui senza sapere nulla di come sarebbe andata. Ero impaurita e avevo paura del giudizio degli altri. Ho imparato a uscire da sola, a giocare con mio figlio, a essere responsabile, ad accettarmi… ho imparato a fare la mamma». Parole che toccano il cuore e danno il senso del grande lavoro di chi, ogni giorno, guarda negli occhi chi ha subìto orrore e violenza.
L’Istituto Casa Famiglia San Pio X di Venezia, fondato nel 1910 alla Giudecca, è una struttura di ispirazione religiosa che accoglie donne in difficoltà, dapprima ragazze madri e in grave stato di indigenza, e negli ultimi anni mamme e minori vittime di violenza. L’istituto ha attraversato con varie peripezie il Novecento fino a ottenere, nel 2014, l’accreditamento della Regione Veneto a poter collaborare con i Servizi sociali e sanitari del Comune di Venezia. La responsabile di comunità è la dottoressa Paola Fattor, assistente sociale, che a margine del seminario organizzato al Centro culturale Candiani lo scorso 28 febbraio, racconta l’evoluzione della Casa Famiglia San Pio X e della nuova Casa Famiglia Taliercio, aperta a Mestre nel 2021.

«Tutto cambia, perché a cambiare è la società che ci circonda – dice – ma rimane uguale il nostro approccio: sospendere il giudizio sulla persona che abbiamo di fronte, continuare a porci delle domande e a studiare, essere curiosi ma al contempo umili verso le donne che accogliamo». E a proposito di cambiamenti, uno dei più recenti spartiacque è stato il Covid: «Innanzitutto per la gravità dei casi, dove la realtà supera talvolta la fantasia – incalza la dottoressa Fattor –. In più c’è l’aspetto numerico, perché un anno, nel 2021 o forse nel 2022, avevamo 75 richieste di ingresso in comunità». Per i nuclei familiari già ospiti all’interno delle strutture protette, invece, la pandemia ha rappresentato una sorta di bolla protetta, una dimensione di leggerezza e sollievo che ha permesso di lavorare in serenità.
Nel complesso le due strutture possono accogliere dodici nuclei familiari, 6 a Venezia e altrettanti a Mestre, più altri 3 in pronta accoglienza. E per “nucleo”, ricorda Fattor, si intende un numero variabile: «La mamma può portare con sé un figlio o più di uno. Ultimamente notiamo nuclei numerosi, anche con tre bambini. Le donne provengono spesso da coppie miste, lei italiana lui straniero, o viceversa». Appartenere a culture e background differenti può essere una ricchezza, a patto di saper comunicare: «Dare voce ai propri pensieri, – spiega Fattor – è difficile perché richiede tempo, capacità e strumenti che non tutti hanno. Le incomprensioni possono essere terreno di scontro e poi di violenza».
In circa 25 anni di esperienza, la dottoressa Fattor ha fatto tesoro anche delle delusioni più cocenti: «Il fallimento più grande – evidenzia – è la fuga di madre e figlio: prendono la porta e non sappiamo più niente di loro. Ne ricordo almeno una decina. Caso diverso è quando una donna, vittima di violenza, non riesce a cogliere il lato bello della vita, nonostante tutti gli sforzi». Il motivo è presto detto: «Prendersi cura di sé è doloroso», sintetizza Fattor. «Ogni essere umano sta dove sa di poter stare: persone che sono cresciute in dinamiche violente non conoscono altro, pensano che quello sia amore».
Voltare pagina però si può e lo dimostrano le centinaia di mamme e bambini che hanno abitato, per un periodo più o meno lungo, le Case famiglia del San Pio X: «Resta molto da fare sul piano giuridico», spiega Paola Fattor. «Se da una parte abbiamo più strumenti a nostra disposizione, come il Codice rosso, dall’altra serve sveltire i procedimenti penali che sono molto lunghi, mentre l’infanzia dei bambini corre veloce».
È importante infine riconoscere che non si tratta di dare “colpe” a qualcuno: «Dobbiamo parlare più di dinamiche relazionali – conclude l’assistente sociale – imparando a gestire il rapporto con l’altro, chiunque esso sia. Genitore, fratello, figlio, compagna: chiunque può lavorare su di sé».
Anna Maselli