Camminare sotto il cielo e non sotto il soffitto di una camera chiusa a chiave fa una bella differenza. Ma rischia di contare poco se non si ha un lavoro, un tetto per la notte, e soprattutto una direzione verso cui andare.
Luca (nome di fantasia) lo ha provato sulla sua pelle: la galera è dura. Dalla prigione si vuole uscire il più presto possibile: alcuni, ahimé, per ricadere negli errori precedenti, chissà se volontariamente o meno; altri per avviare un seconda e migliore vita. Per questo le misure alternative al carcere – come quelle introdotte di recente dallalegge Cartabia, a partire dal lavoro alternativo al carcere – sono fondamentali: «Ma a patto che…», attacca Luca.
Ma prima di mettere i puntini sulle “i”, capiamoci su chi sta parlando. Luca ha avuto una condanna definitiva per un reato finanziario: tre quarti della pena li ha già scontati in prigione, tra custodia cautelare e detenzione dopo la condanna. L’ultimo tempo da detenuto è iniziato invece da poco in forma diversa: tecnicamente si tratta di affidamento in prova ai servizi sociali.
Segretario in un ufficio, per ricominciare. Tradotto in pratica: Luca va tutti i giorni a lavorare, a Venezia, come segretario in un ufficio. «Poi – racconta – faccio anche volontariato in una chiesa della Diocesi, dove svolgo il servizio di guardiania. Lavoro volentieri, mi alzo al mattino con un obiettivo, faccio delle cose, do un senso alla mia giornata e così rientro un po’ per volta nella società civile. In più mi dedico anche al volontariato, perché se prima ho fatto un danno alla società, oggi voglio restituire; il danno rimane, ma io cerco di compensare».
Ecco, siamo nel cuore della faccenda, perché le misure alternative al carcere sono fondamentali – sottolinea il protagonista di questa vicenda – ma solo se prima il detenuto ha svolto un vero lavoro di intelligenza e coscienza su se stesso.
Che vuol dire? «Vuol dire che io il reato l’ho fatto e lo devo pagare. È una cosa che non tutti i detenuti purtroppo vogliono o riescono a capire: la galera è l’effetto, la causa sono io. Il carcere non è un tumore, non capita come un fatto imprevedibile; se io non commettevo quel reato e se avessi lavorato come una persona seria, non sarei qua: per quanto mi riguarda questo è stato il mio più grande errore ed è il mio maggiore rimorso. Oggi mi pento di una cosa: lavorando onestamente sarei arrivato comunque ai miei obiettivi bene e, anzi, meglio, evitando l’onta. Purtroppo sono stato scemo: ho scelto una scorciatoia che mi ha portato nel baratro. E quel marchio di Caino che ora ho addosso sarà ben difficile da eliminare».
Capire l’errore, grande fatica. Questo è l’esame di coscienza, secondo Luca: «È un passaggio che tutti i detenuti dovrebbero fare, da soli o aiutati, perché per molti è difficile arrivarci autonomamente. Ma a quel punto, quando riesci a capire che hai fatto un errore, ecco che la misura alternativa diventa propedeutica per il reinserimento».
Ecco, appunto: ma la maggioranza dei detenuti è in grado di fare questi passaggi? «Da soli perlopiù no: cultura modesta e l’appartenere a contesti sociali diversi, provenendo da esperienze delinquenziali differenti, non aiuta. Per tanti essere lì in una cella è colpa del mondo, mai colpa loro. Per fare questo passaggio serve invece un’onestà intellettuale per raggiungere la quale occorrerebbero più educatori e assistenti sociali, che però scarseggiano. Si investe poco in queste risorse, che produrrebbero vantaggi per tutti, anche per chi sta fuori: per chi esce dal carcere con un lavoro in mano o un mestiere è provato che la probabilità di recidivanza (cioè di commettere di nuovo reati) scende in maniera significativa. Esistono esperienze di carceri come Padova o Bollate che lo provano senza ombra di dubbio, carceri dove nonostante le difficoltà e le esigue risorse umane e di mezzi si opera per il reinserimento sociale e lavorativo del detenuto».
Poi c’è tutto il problema del “fuori dalla cella”, sia quando si vive il periodo delle misure alternative sia quando si è finito di scontare la pena. La cosa peggiore, quando un detenuto esce, è che non sa cosa fare, come fare, dove andare…: «Senta cosa mi ha scritto un mio ex compagno di cella: “Fuori, senza soldi, senza un mestiere, senza un diploma non fai nulla”. Ecco, bisogna creare le condizioni, prima e dopo, per non lasciare sole le persone che escono dal carcere».
Gli incentivi che mancano. Ovvero: in carcere, anche grazie alle cooperative esterne, si tratta di formare al lavoro; fuori si tratta di offrire lavoro. «Ma oggi – riprende Luca – secondo me non andiamo oltre il 20% di aziende che accolgono ex detenuti. Al momento queste assunzioni sono garantite quasi solo da cooperative sociali di tipo B che assumono soggetti svantaggiati, ma è ancora troppo poco».
E perché le aziende diciamo normali non li accolgono? «Perché mancano incentivi e agevolazioni, cioè riduzione dei contributi e delle imposte per chi assume ex detenuti. Quando queste misure erano state applicate, per esempio con la legge Smuraglia (che è del 2000 e poi è stata abbandonata), le assunzioni erano aumentate. E troverebbero lavoro in tanti, perché oggi le aziende se ne gioverebbero anche a livello di immagine: il fatto di prendere soggetti svantaggiati è un valore aggiunto. Essere etici oggi non è solo una scelta di civiltà, ma anche di convenienza».
Il problema, quindi, è di natura politica: «È il governo, con la sua politica, che dovrebbe mettere gli operatori del settore e le aziende nelle condizioni di creare il circolo virtuoso, anche riducendo la burocrazia che in questi casi rallenta gli inserimenti. Perché vale la pena ricordare che un ex detenuto inserito nella società civile è un successo ed una risorsa per la società stessa; un detenuto recidivo è un problema e un fallimento della stessa».
Giorgio Malavasi