Cresce il rilievo della biopsia liquida nella lotta ai tumori dei polmoni: lo sottolinea Stefano Indraccolo (nella foto di apertura), coordinatore di un gruppo di ricerca allo Iov, l’Istituto oncologico veneto, con sede a Padova.
In sostanza, la biopsia liquida è la ricerca di tracce genetiche del cancro polmonare nel sangue; un’indagine, quindi, praticamente non invasiva – visto che consiste in un semplice prelievo di sangue – ma con risultati che tendono ad avvicinarsi a quelli ottenuti facendo la ben più complessa e dolorosa biopsia di un tessuto prelevato all’interno del corpo. Oggi, “leggendo” una goccia di sangue, siamo al 60% di precisione rispetto all’analisi di un tessuto.
Indraccolo spiega i progressi di questo ambito di ricerca intervenendo, a Mestre, alla presentazione del “Ciani Live Aid”, l’evento di musica e solidarietà che si terrà a Zelarino da venerdì 30 agosto a domenica 1° settembre per ricordare Gianluca “Ciani” Pistolato.
L’obiettivo finale è ambiziosissimo: scovare il tumore in fase precocissima, quando è facilmente affrontabile. «Ancora oggi – rileva il medico – due tumori polmonari su tre sono diagnosticati in fase avanzata, quando non sono più operabili».
Per questo la diagnosi realizzata grazie alle tracce genetiche che un cancro lascia nel sangue è una meta di enorme rilievo: «Non per niente, negli Stati Uniti è stato avviato un progetto di ricerca, finanziato con due miliardi di dollari dalla Bill Gates Foundation, da Jeff Bezos fondatore di Amazon e da una grossa azienda del settore, Illumina. L’obiettivo è aumentare la sensibilità dei test, cioè renderli talmente sensibili da funzionare anche nella fase precoce».
Per i risultati bisognerà però attendere ancora tre-cinque anni «e probabilmente occorrerà un balzo tecnologico per riuscire davvero in quest’impresa».
Intanto, però, la biopsia liquida funziona già, da almeno un triennio, anche qui da noi: «Viene praticata – prosegue il dott. Indraccolo – soprattutto in due casi. Il primo è quello della “progressione”. Ovvero: impostata la terapia iniziale, il paziente ha un beneficio più o meno grande; in alcuni casi guarisce, in altri la malattia torna ad aggravarsi e questa fase si chiama progressione. In quel caso diventa molto difficile convincere il paziente e anche il medico curante a fare una nuova biopsia, magari perché le condizioni generali sono meno buone, o anche perché è troppo rischioso. Allora si fa un prelievo di sangue per cercare le alterazioni genetiche in base alle quali si può impostare una terapia anziché un’altra. Questo avviene anche per altri tumori, ma quello al polmone è il caso in cui questa procedura ha avuto più successo».
Poi c’è un altro ambito: «Quello dello studio di quanto buona sia la risposta alla terapia. Di solito, in ogni terapia, si fa una Tac dopo tre mesi. E si vede se la malattia si riduce e quale sia la risposta ai farmaci. In realtà si può fare la stessa cosa – e, anzi, molto tempo prima – con un prelievo di sangue. Non è ancora una pratica generalizzata, ma lo diverrà. Noi stessi, allo Iov, abbiamo analizzato così casi di tumore ai polmoni trattati con la chemioterapia o con l’immunoterapia: si fa un prelievo prima di iniziare la cura, poi un altro dopo tre settimane e già allora si riesce a cogliere se la terapia stia andando bene o no. A quel punto si può scegliere se applicare una terapia A oppure una terapia A+B, probabilmente più tossica di A, ma che magari funziona di più. È evidente che è inutile fare a tutti i pazienti il raddoppio A+B; perciò, se con un prelievo di sangue si riesce a capire chi reagisce bene ad un solo farmaco, si evita di somministrargliene di più».
Giorgio Malavasi