«Fino a quando non capiremo il valore umano degli incidenti sul lavoro, le ricadute tragiche sulle persone, sulle famiglie, sugli affetti, sulla vita di donne e uomini che soffrono e fino a quando non capiremo il valore sociale di tutto ciò, possiamo creare tutte le leggi che vogliamo e mettere un carabiniere davanti a ogni cancello di fabbrica, ma nulla cambierà».
Gianni Finotto dice di esserne «visceralmente» convinto: la sicurezza sul lavoro aumenterà e gli incidenti diminuiranno quando ci si convincerà che è bene accada. Cioè che è conveniente. Per tutti, non solo per qualcuno.
Lavorare sulle teste, la vera sfida. «È solo una questione culturale», sottolinea il docente di Ca’ Foscari, direttore del master in Scienza e tecniche per la prevenzione e sicurezza. Un corso a numero chiuso, unico nel suo genere almeno per l’approccio: assai più culturale che tecnico.
«Perché la cosa su cui lavorare – rimarca l’esperto – sono le teste, non tanto per le competenze quanto per le motivazioni e convinzioni». In queste settimane si parla spesso di sicurezza nei luoghi di lavoro: ne parlano le cronache, innanzitutto, per il numero crescente di incidenti gravi, a volte mortali. Nei primi quattro mesi del 2018 sono morte 190 persone, nel Paese, 21 in Veneto. «In effetti – precisa Finotto – il dato tendenziale di quest’ultimo periodo crea grande allarme sociale, ma nel lungo periodo il dato è in miglioramento. Considerando un intervallo temporale breve, i numeri possono salire, come accade oggi, e si crea un allarme sociale non giustificato. Però è giusto creare attenzione. Ricordando, comunque, che le scelte non devono cavalcare le onde emotive».
Per chi è davvero un problema? Negli ultimi vent’anni le aziende – prosegue il docente – sono molto migliorate per quanto riguarda macchine, impianti e attrezzature, in ordine alla sicurezza. «Manca una cosa da mettere a posto: le teste. E mettere a posto una testa è cosa più difficile che comprare una macchina nuova. E quali sono le teste da “attrezzare”? Tutte. Guai se penso che sia solo quella dell’operaio. Chi di noi, in fondo, sente davvero la sicurezza sul lavoro come un problema?».
Il problema di fondo è che tutto ciò che riguarda la sicurezza nel contesto del lavoro «viene vissuto come un obbligo di legge, non come un’opportunità: finché non passeremo davvero a considerare il problema aldilà dell’obbligo di legge non faremo mai un vero passo in avanti».
Parimenti, finché la sicurezza viene vista nell’ambito dei costi economici e non ne viene visto il costo umano e sociale, non ci sarà progresso. «Salvo poi capire – spiega il prof. Finotto – che i costi della mancata sicurezza, secondo dati Inail, sono il 3% del Pil, ogni anno. Tra costi diretti e indiretti si arriva a 50 miliardi di euro l’anno».
Servono testimonial convinti, cioè credibili. Il che significa che una maggiore sicurezza produrrebbe non solo vantaggi per il minor numero di lutti e drammi umani, ma anche un ritorno economico, guarda un po’. Ma la soluzione non è normativa: «Le leggi non mancano, anzi, ci sono tutte. E i controlli ci sono pure.
È l’aspetto motivazionale che va sollecitato. Quindi aldilà dei corsi che vengono fatti, e ne vengono fatti, quel che conta non è la quantità, ma la qualità di ciò che si dice e si fa». Se non c’è la motivazione, non succede nulla: «E la motivazione – conclude Finotto – scatta quando ci sono delle persone che sono in grado di trasferirla, per contagio, per testimonianza. Se tu ci credi, io mi porrò il problema; se lo fai per mestiere, no. Per aumentare la sicurezza e ridurre incidenti e tragedie abbiamo bisogno di testimonial credibili, perché convinti. Serve, insomma, un contagio pop».
Giorgio Malavasi