E se si facesse un patto? Un accordo per cui chi, durante l’università, fa uno stage o un’esperienza di lavoro ha un vantaggio rispetto a chi non lo fa? Per esempio nell’essere subito retribuito al primo impiego da laureato? Mentre chi si è solo concentrato sugli studi accetta – per imparare cos’è il mondo del lavoro – di fare uno stage d’esordio non retribuito?
La proposta è di Riccardo Pavanato, ingegnere gestionale di Mira, amministratore delegato e tra i soci fondatori di Auxiell, società con sede a Padova, la cui missione consiste nel rendere più efficaci ed efficienti i processi in cui consiste l’attività di un’impresa.
La proposta nasce da un fatto e da due riflessioni. Il fatto è che un po’ di ripresa c’è. Oggi le aziende cercano persone da inserire in numero maggiore rispetto a tre-cinque anni fa. Ma faticano a trovarne di adatte alle proprie esigenze.
Per due ragioni. La prima è che la scuola e l’università continuano a formare giovani con competenze troppo distanti dalle esigenze reali delle imprese. La seconda è che, nonostante la crisi e la difficoltà a trovare lavoro, molti giovani e rispettive famiglie continuano a puntare all’obiettivo alto (laurea, magari neppure tecnico-scientifica) più che all’attitudine dei ragazzi o a ciò che domanda il mercato del lavoro.
«Lo dico – chiarisce Pavanato – per quanto vedo dal mio osservatorio: resta notevole il gap fra i bisogni reali delle aziende e le competenze ed esperienze di chi cerca un lavoro».
La novità è che questo accade in un momento in cui dei segnali di ripresa ci sono. Uno di questi, per esempio – elementare ma sintomatico – è l’aumento del prezzo del cartone. Siccome quasi tutte le attività produttive hanno bisogno di cartone per imballare ciò che realizzano, il fatto che sia più caro o perfino che se ne trovi poco indica che la domanda è cresciuta e sta mettendo in difficoltà l’offerta.
Pavanato, che due anni fa aveva scritto una lettera, che aveva avuto risonanza nei giornali, in cui proponeva la sua analisi del tema e lanciava un allarme, torna oggi sulla questione. Ma non vede grandi mutamenti: «Scuola e università restano distantissime dal mondo del lavoro. Io stesso, quand’ero all’università, una quindicina di anni fa, ho studiato una marea di cose che andavano bene per i libri. E basta. Ancora oggi non tutti i professori universitari sostengono le imprese che cercano di coinvolgere gli studenti in attività di stage o di apprendimento durante il percorso di studi».
Così chi si presenta presso un’impresa, senza aver prima maturato esperienze di lavoro, parte da un deficit. Rimediabile – sostiene Riccardo Pavanato – a patto che il candidato mostri umiltà: «L’università dovrebbe mandare lo studente anche a lavorare, a fare esperienza; ma se non lo fa, lo faccia lo studente, di propria iniziativa. Si proponga a un’azienda, anche disposto a lavorare gratis; ma non con l’idea “mi stanno sfruttando”, bensì con la convinzione “sto imparando”. Chiaro: lo si fa alla prima esperienza e non può esserci un passaggio eterno di stage in stage. Per questo propongo un patto che incentivi la formazione di esperienza e migliori il rapporto fra candidati al lavoro e aziende».
Un esempio di ciò che Pavanato intende per percorso utile, se non virtuoso? «Ha da poco terminato uno stage un giovane laureando, arrivato al termine della carriera universitaria con qualche anno in più rispetto a quelli canonici. La ragione è che durante gli studi ha anche lavorato: ogni sera consegnava pizze a domicilio. Lo stage – per la nostra società, che gli ha garantito il rimborso delle spese e la copertura assicurativa – è stato compiuto presso un’azienda esterna. Al termine, lo stagista ha ricevuto un grande apprezzamento da parte dell’azienda ospitante, perché ha mostrato umiltà e capacità ad inserirsi, senza la pretesa di sapere alcunché. Dote rara, che è stata apprezzata. Questo, visto dal mio osservatorio – commenta Pavanato – è l’approccio giusto, che poi ripaga. Tant’è vero che abbiamo deciso di assumerlo. Ma in questi ultimi anni non ho visto un significativo incremento di elasticità e di capacità di sacrificio».
Giorgio Malavasi