Carenze progressive negli organici delle figure professionali (psichiatri, psicologi, tecnici della riabilitazione), fondamentali nella cura e nella riabilitazione del paziente; costante calo quantitativo e qualitativo di prestazioni e di attività. E ancora, una riduzione delle strutture di cura ed esiguità della spesa pro capite.
Gli ultimi dati pubblicati dall’Istituto superiore di Sanità nel biennio 2018-19, fotografano la gravità della situazione per quanto riguarda la prevenzione e la cura del disagio mentale nel Veneto. Tutte tematiche al centro della manifestazione indetta ieri da AITSaMODV (sezione veneta dell’associazione italiana per la tutela della salute mentale) che ha chiamato a raccolta un centinaio di partecipanti che, partendo dalla stazione ferroviaria di S. Lucia, hanno raggiunto campo S. Tomà. Da dove una delegazione si è recata nella sede della Regione per un incontro con l’assessore alla Sanità, Manuela Lanzarin.
«La situazione non è buona – sottolinea Salvatore Lihard, del Movimento per la Difesa della Sanità pubblica veneziana –. Purtroppo nei servizi psichiatrici siamo sotto organico di circa il 25%. La Regione spende pochissimo per questi malati». A fronte infatti di una soglia minima del 5% irrinunciabile, il Veneto – da quanto denunciato dall’associazione – riserverebbe da anni al settore soltanto il 2,5% della dotazione del fondo sociosanitario regionale, di fatto classificandosi al penultimo posto della graduatoria nazionale.
«Già prima della pandemia, periodo che ha visto aumentare vertiginosamente la richiesta e il bisogno psichiatrico, il Veneto era fanalino di coda. Nemmeno dinanzi a questo aumento – continua – c’è stata un’adeguata risposta». Aumento registrato soprattutto nei giovani, tra i quali le problematiche sono state determinate specialmente dall’isolamento e dalla Dad prolungata. Lo precisa Silvana Marzagalli, presidente della sezione veneziana di AITSaM, nonché vicepresidente nazionale, evidenziando come la carenza delle terapie di riabilitazione si traduca in una cronicizzazione del paziente, che porta alla permanenza nelle comunità terapeutiche prima della fascia d’età a cui sarebbero rivolte (45 anni).
«In Veneto non si effettuano ricerche longitudinali – prosegue – che vanno a monitorare l’efficacia delle terapie e cosa succede al paziente a distanza di qualche anno. Quello che manca? Una prospettiva di reinserimento sociale». «La gente si affida al fai-da-te e c’è un consumo spropositato di psicofarmaci. La guerra – conclude Lihard – ha aumentato ancora di più lo stato depressivo». (M.G.)